
Con lui si chiude un’epoca, quella di un’altra generazione, che verosimilmente rappresentava una Fermo dal lato umano e laborioso, ma al contempo capace di sfornare personalità caratterizzanti ed uniche. Una città fatta di vecchi lavori e facce indimenticabili, scavate dagli anni e dall’amarezza, troppo spesso dall’incomprensione. Facce d’una stranezza tanto particolare quanto genuina, a tal punto da lavare via ogni retorica macchiettistica. Nessuno potrà mai parlare a lungo di Fermo e della sua storia cittadina senza nominare "Vincè de piazza" o "Vincè de li pacchi", ognuno avrà di lui dei ricordi personali e sorridenti. Anche io ne ho molti. Era una di quelle poche persone che facevo salire in macchina volentieri, in uno dei tanti suoi spostamenti tra una fermata e l’altra delle corriere. Una volta ci ho pure litigato, avrò avuto vent’anni. Ma poi ci siamo chiariti, mi ha parlato di mio padre quando non c’era più; sapeva tutti di lui, ed anche di me. Vivo sotto una delle fermate storiche della corriera per Roma, e le sue voci caratteristiche si alternavano a quelle dei viaggiatori che non lo conoscevano, e quegli schiamazzi invadevano piacevolmente le mie stanze, ricordandomi ogni volta di essere esattamente nel luogo dove sono nato. Altri volti ed altre voci caratterizzeranno Fermo, ma Vincè entra di diritto nel pantheon degli indimenticabili. Un francescano senza saio, con quegli arti deformati dal lavoro e dal gelo, dagli anni e da una vita difficile, arti che non poteva racchiudere se non con dei sandali. Se n’è andato l’ultimo dei mendicanti.