«In certi laghi del Messico vive un animale dal nome impossibile fatto un po’ come una salamandra. Vive indisturbato non so da quanti milioni di anni come se niente fosse, eppure è il titolare e il responsabile di una specie di scandalo biologico: perché si riproduce allo stato larvale… Insomma, è come se un bruco, anzi una bruca, una femmina insomma, si accoppiasse con un altro bruco, venisse fecondata, e deponesse le uova prima di diventare farfalla. E dalle uova, naturalmente, nascessero altri bruchi. Allora a cosa serve diventare farfalla? A cosa serve diventare un insetto perfetto? Si può anche farne a meno. Infatti, l’axolotl ne fa a meno (così si chiama il mostriciattolo, avevo dimenticato di dirvelo). Ne fa a meno quasi sempre: solo un individuo ogni cento, o ogni mille forse particolarmente longevo, un bel po’ di tempo dopo essersi riprodotto, si trasforma in un animale diverso… Neotenia, ecco come si chiama questo imbroglio: quando un animale si riproduce allo stato di larva».[1]
Lasciamo andare il contesto della novella Angelica Farfalla di Primo Levi: resta il fatto che un letterato ha visto in questa “eccezione” biologica tale un sapore utopico, da costruirvi sopra la storia di una manipolazione genetica, che parte dal presupposto «che altri animali, forse molti, forse tutti, forse anche l’uomo, abbiano qualcosa in serbo, una potenzialità, una ulteriore capacità di sviluppo. Che al di là di ogni sospetto, si trovino allo stato di abbozzi, di bruttecopie e possano diventare altri.. Che, insomma, neotenici siamo anche noi».[2]
Anche l’uomo nuovo di Marx, l’uomo onnilaterale è l’altro che germina non per neotenia, ma per rivoluzione, dal vecchio non-uomo: una sua potenzialità, posto che prima il non-uomo non si autoestingua definitivamente!
Ambientazione scientoide a parte, pare comunque chiaro che sulla nozione di neotenia può tranquillamente sovrapporsi quella di utopia (in particolare quella di Ernst Bloch, che contempla, tra l’altro, il futuro incistato nel passato!). Ed è proprio quanto qualche anno fa Georges Lapassade (in un seminario sul tema Transe e sabba tenuto il 24 novembre 1992 alla Statale di Milano) pare volesse escludere! Chiedendosi come sia legittimo che «su ciò che fa parte di un libro di biologia (il riferimento è a un testo di Bolk, del 1926) si crei una connessione con l’utopia?».[3]
La sua obiezione di fondo è che «si usa la neotenia come un concetto di filosofia e non come nozione biologica … ». Ma Primo Levi è li a dimostrargli la legittimità, per esempio, del letterato nell’usare questa nozione!
Personalmente obietterei che, comunque, quanto all’axolotl, la biologia viene dopo la mitologia. Anche se infatti possiamo fa iniziare la biologia da Aristotele, è indubbio che, ciò che Levi definisce eresia intollerabile per il biologo, non poteva essere osservato che dopo la conquista del Messico (cioè del luogo dove l’axolotl scandalosamente vive!), e che nel Messico pre-colombiano era la mitologia e non la biologia, che si prendeva cura di osservare le vicende dell’axolotl e di darne un’interpretazione: e la mitologia, almeno per taluní aspetti, è molto più vicina all’utopia che non alla biologia. Vediamone il perché, e, intanto, sottolineiamo che axolotl è un termine nahuatl, cioè azteco, e dunque connesso anzitutto al pantheon azteco, nel quale la metamorfosi larvale e neotenica dell’amblistoma (questo essere che vive al di qua delle sue possibilità evolutive e non assume la pienezza di sviluppo) può ottimamente prestarsi a simbolizzare le storie degli dei, le loro metamorfosi, le non rare vicende in cui essi si avvalgono della presenza di un doppio.
Xolotl, per gli Aztechi, è il dio-cane, doppio infero di Quetzalcoatl che si rifiuta al sacrificio degli dei, voluto dal sole, trasformandosi appunto in axolotl. Con ciò si dà un esempio, nel pantheon azteco, di un prometeico rifiuto dell’imperativo cosmico (i rapporti col sole, in quel pantheon, sono primari!): negando uno sviluppo, e nello stesso tempo, un determinismo…
Ogni mitologia nasce e si sviluppa in un contesto sociale e di classe, che dunque non può mancare neppure in questo specifico esempio. Si dà appunto il caso che xolotl sia, oltre che il nome proprio del dio disubbidiente, anche quello comune dello schiavo in quella particolare società, dove l’istituzione della schiavitù va intesa del tutto diversamente da quella greco-latina e dalla servitù della gleba medioevale. Era infatti l’azteco che volontariamente rinunciava alla «libertà» del cittadino, alla sua maturità, ma anche alle sue preoccupazioni (diritti e doveri), che diventava xolotl, cioè un apolide (chiamiamolo così!), che tuttavia poteva possedere dei beni, trasmetterli ai figli, sposare una donna libera e riscattarsi, se voleva dalla condizione di schiavitù! Scrive Christian Duverger: «è probabilmente perché lo schiavo volontario rifiutava l’ordine stabilito delle responsabilità che lo si chiamava xolotl. Questo riferimento al mito è significativo… Il Sole reclamò il sacrificio degli dei per acconsentire a muoversi… Xolotl rifiuta di sacrificarsi per il buon funzionamento del mondo e prende la fuga… si trasforma in doppia spiga di mais, in doppio maguey infine si nasconde nella laguna dove si trasforma in axolotl… Xolotl è una delle rarissime figure divine che si ribellano alle esigenze dell’ordine cosmico, che fuggono e costrizioni imposte dal, e per il, funzionamento del sistema… Il mito illumina il personaggio dello schiavo: è in effetti uno che rinuncia all’esteriorità del suo essere, è un fuggitivo si nasconde alla società… La sua esistenza sottomessa lo ride dalle ossessioni generate dalla lotta per la vita e dal suo ranaggio di esigenze».[4]
Ma, se bene si osserva, la rinunzia dello xolotl alla cosiddetta maturità del cittadino (oggi si direbbe alla democrazia!) è un’utopia, sia pur negativa: è infatti (in questo caso) la fuga da una società dispotica e addirittura antropofaga. Meglio allora non essere cittadino, se cittadino vuol dire rendersi responsabile di una società disumana; meglio essere non-uomo, in una società di finti uomini, che si sbranano a vicenda’ Meglio essere più uomo da non-uomo che da finto uomo! Qui emerge il senso profondo della duplicità e dell’axolotl e dello xolotl.
Laurette Séjourné ha notato che xolotl è «la forma larvale assunta da Quetzalcoatl nel Regno dei morti»: [5] v’è dunque una catabasi, mediante la quale si esplica il ruolo di redentore di Quetzalcoattl (in quanto altro da sé in Xolotl!), il quale negli inferi raccoglie una polvere d’ossa, che, innaffiata del proprio sangue, darà poi luogo all’uomo. Questa (che parrebbe un’operazione alchemica) è sovrapponibile a tutta una serie di sdoppiamenti del suo doppio (il dio/cane Xolotl) che, a loro volta, parrebbero alchemiche metamorfosi attraverso i quattro elementi: perché Xolotl, fuggendo dal cielo (aria), si trasmuta in mais a due steli (terra), più tardi in axolotl (acqua), ma visita anche il fuoco sotterraneo (inferi), dove pure è doppio (Quetzalcoatl e insieme Xolotl!).
Giustamente la Séjourné scrive che «gli Aztechi lo consideravano dio dei gemelli» (cioè di una vita duplicata) e lo definisce «divinità dei fenomeni dualistici».[6] Le metamorfosi del dio nomade Xolotl (anche il suo divenire axolotl) sono fatte, da una parte, per amore della vita («Oh dèi, io non voglio morire» esclama, quando il sole esige la morte degli dei per proseguire il suo corso!); dall’altra parte, è proprio il suo peregrinare in fuga, da una metamorfosi all’altra, che permette al suo doppio Quetzalcoatl di far venire alla luce l’uomo! E la larva di dio che, quasi blochianamente, mette al mondo l’uomo!
Se si passa dalla mitologia di Xolotl alla società dello schiavo (xolotl), è proprio la sua imitatio del dio che ne rende visibile l’utopia: questo schiavo infatti proprio fuggendo nel sottosuolo, negli inferi della sua società, salva (quando ci riesce!) la sua vita e la sua umanità (o meglio: la crea ex novo!) e, d’altronde, ciò è possibile proprio perché è doppio: è uomo/non uomo; fa e non fa parte della società ed è proprio la sua alterità che permette di prospettare (inizialmente attraverso la negazione e la fuga) una società altra. Da una distopia, insomma, parrebbe nascere una utopia! Non molto diversamente dal futuro proletario marxiano, che, proprio per operare la rivoluzione, che introdurrà l’uomo nella storia, deve avere coscienza (oggettivo paradosso!) di essere non uomo, ma cosa: di esser stato cosificato dalla cosa/capitale, ai fini dello sfruttamento della sua forza-lavoro; sicché, se non si riconosce cosa (cioè alienato), neppure può prospettare ed attuare il proprio radicale mutamento da cosa ad uomo: se non scende negli inferi della consaputa reificazione, non può neppure mettere in pratica la rivoluzione!
Così anche per lo xolotl: è dalla sua discesa negli inferi della società schiavista che può emergere l’uomo; da questo rifiuto della società ingiusta (e sprofondamento al di sotto di essa) che si apre la possibilità di trasformarsi in essere diverso (lo schiavo in uomo di un’altra, disalienata società): non ci sarebbe, caro Georges Lapassade, un suggestivo rapporto allora tra neotenia e utopia? Certo no, se si considera l’utopia come gli utopisti contro cui anche Marx ed Engels si scagliavano; ma si può (e si deve) distinguere tra utopismo e utopia; e, se si accetta questa distinzione, Marx ha tutti i diritti di rivendicare a sua volta la legittimità della propria utopia, tanto poco costruttiva e razionale (nel senso generico che ieri ed oggi si dà a questi termini!) da essere formulata più negativamente che positivamente: niente stato, niente diritto, niente eguaglianza (visto che di questi si fa già carico abbondantemente il capitale…); niente lavoro (visto che la migliore organizzazione del lavoro è quella capitalistica…); ma invece naturalizzazione dell’uomo e umanizzazione della natura e soprattutto uomo onnilaterale, vale a dire, per definizione diverso, noti imprigionabile in alcuna serie, volto non più al lavoro (Arbeit), ma all’attività (Tätigkeit).
Certo, se è un uomo vecchio, un non-uomo a tentare di attuare l’utopia, essa rischierà di trasformarsi nel suo contrario: per questo occorre sottolineare fortemente il tema del salto dalla marxiana preistoria alla storia: laddove c’è continuum non e sperabile che si instauri utopia.
Lapassade, scrivendo del Paradosso dell’utopia, giustamente lamenta che, quando l’utopia prende il potere, restaura di solito un vecchio ordine. Ma perché è una falsa utopia: in quanto prende il potere (cioè una cosa preistorica). Quando si prende il potere è il potere che prende! Direi che il paradosso è un altro: come può il non-uomo dare alla luce l’uomo? Per neotenia? Marx parlava delle macchie che il socialismo si trascina dietro dal capitalismo… Il socialismo, cioè, è ancora una posizione per negazione e invece l’utopia è autoposizione! Se è tale, allora è davvero un salto (ivi compreso il passaggio anche a un tempo totalmente altro) ciò che la può attuare… Non è un caso che il vecchio Platone dicesse che non si instaura la polis giusta, se non dopo una catastrofe (cioè dopo un salto che l’abbia fatta finita col vecchio non-uomo)!
L’Atlantide (anche quella dei masnadieri politici che finora hanno, si fa per dire, governato) deve essere ingoiata dai flutti perché emerga il luogo (e il tempo) dell’utopia. Finché dura Atlantide, l’utopia non può essere che utopismo, ideologia.
Oppure provvisoria presentificazione di un futuro che non può ancora essere qui: semplice stimolo al tentativo di presentificarlo più compiutamente e durevolmente.
Per fare un richiamo a uno degli argomenti discussi così Lapassade: il sabba è appunto interpretabile come uno dei momenti salienti (nella preistoria) di quella provvisoria presentificazione dell’utopia; soprattutto per la concezione del tempo altro, che in esso si dispiega e per l’esaltazione della diversità, del superamento dei ruoli sessuali in esso presenti.
Devo osservare che, pur essendo d’accordíssimo con Lapassade, sul fatto che l’archetipo del sabba sia da rinvenire nello sciamanismo, sono del parere che esso non debba essere enfatizzato come esclusiva chiave di lettura. È verissimo che lo sciamano (che non è un posseduto) va a vedere, proprio come streghe e stregoni vanno a vedere (a cavallo di scope o di altri arnesi, come si legge nel Baldus di Folengo); si tratta di nomadismo (e di visione) e non di accadimento interiore o di singola possessione. Ma tutto ciò (al di là del vecchio problema: se si tratti di immaginazione o di realtà) mi pare ancora un’archeologia del sabba, non sostanzialmente diversa da quella della Storia notturna di Carlo Gínzburg. A chi interessa il sabba, e non la bisnonna del sabba, preme cogliere lo storico/specifico di esso, e per far ciò non può non partire, nell’indagine, dalla centralità di quel’ evento colto nel tempo della piena maturità di quel fenomeno. Cardano ci dà, per tutto questo, una chiave di lettura in un primo tempo impareggiabile, quando, fra i primi, vede nel sabba un fenomeno pluristratico, nel quale si assommano le orge femminili dell’antichítà, ma anche le licenze utriusque sexus degli eretici medievali di fra Dolcino. Ma poi del sabba di cui si parla ai giorni suoi fa una semplice immaginazione/illusione, vietandosi così di considerare quel discusso fenomeno nella sua dispiegata e complessa maturità.
Non diversamente alcune paleofemministe hanno lamentato che all’antica domina del gioco si sia sostituito (nel Rinascimento) il diavolo, anch’esse rifiutando di guardare al sabba nel tempo della sua massima fioritura (e persecuzione). Ritengo sia preferibile il metodo marxiano. Per Marx: «La società borghese è la più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione. Le categorie che esprimono i suoi rapporti e che fanno comprendere la sua struttura, permettono di capire al tempo stesso la struttura e i rapporti di produzione di tutte le forme di società passate… L’anatomia dell’uomo è la chiave per l’anatomia della scimmia».[8]
Se è permessa questa analogia, è dunque l’anatomia del sabba rinascimentale quella che può spiegare aspetti di fenomeni, meno complessi, che l’hanno preceduto e non viceversa. È il diavolo che spiega la domina ludi e non viceversa! Dunque, presumibilmente, si capisce il sabba non a partire dal suo disarticolato sostrato (tutt’altro che in sé non interessante o non importante), ma dall’aspetto più pienamente emerso nella storia, fra Rinascimento e inizio dell’età moderna. La domina ludi o le cavalcate notturne femminili evocate dal Canon episcopi, ma anche il volo degli sciamani, possono essere elementi disarticolati del sabba, ma non sono il sabba. Molto più sabba sono, ma non voglio qui ripetermi, il retrovolgimento (e al limite l’annullamento) del tempo, il toglímento della differenza sessuale in vista della diversità, l’esaltazione dell’androginia diabolica ecc. ecc. che, assieme al decisivo fermento di rivolta collettiva, fanno di questo fenomeno uno dei momenti più caratteristici (sono caratteristiche anche le stragi!) dell’inizio, col capitalismo, dell’età moderna. Lapassade del resto (nel suggestivo Saggio sulla transe, di cm molte volte ho consigliato la lettura)[9] sa benissimo che il sabba (una delle forme storico/specifiche della transe) è un ottimo analizzatore delle contraddizioni sociali: perché sia considerato veramente tale va dunque colto nella sua globalità e peculiarità. Uno dei cui aspetti è la contestazione, si diceva, del tempo normale: a questo proposito, non va dimenticato che quella contestazione avviene proprio quando la società che si avvia ad essere -quella – moderna – del capitale, sta imponendo il suo nuovo tempo di lavoro. Basterebbero le accuse di de Lancre (streghizzatore del Labourd per conto di Enrico IV) sul non-lavoro e la dépense dei Baschi, che si accingeva a sterminare, a provarlo.
Qualche raro sabba, si dice, si svolgeva a mezzogiorno (in omaggio, forse, al demone meridiano!) ma a streghe e stregoni era indubbiamente cara la sacra notte: non solo perché, cancellando i contorni, toglieva il mio e il tuo (tempo, ruolo sessuale, proprietà ecc. ecc.), ma perché, immersi in essa, come l’axolotl nelle acque profonde (e lo schiavo nel sottosuolo della civiltà azteca), potevano provvisoriamente presentificare l’utopia: quella del Rinascimento e degli inizi dell’età moderna, che come tale va studiata, nella sua specificità, pur non trascurando, se si vuole, le sue bisnonne, ma nemmeno, con Emst Bloch, se si vuole, il futuro nel passato, che in quel particolare palinsesto potrebbe anche trasparire.
Né bisognerebbe trascurare quanto dice il Primo libro del Capitale: «Mentre si cessava di mandare al rogo le streghe, in Inghilterra si cominciò a mandare alla forca i falsificatori di banconote»:[10] il capitale aveva vinto, anche mediante il rogo delle streghe; adesso quella strage diventava inutile e si ricominciava con i traditori del nuovo dio: il denaro!
D’altra parte - e per terminare -, si sa, per Marx, il satanico, col capitale, ha un ulteriore trionfo e Il capitale è una precisa denuncia di «tutto il misticismo del mondo delle merci, tutta la magia e la stregoneria che avvolgono di nebbia i prodotti dei lavoro sulla base della produzione di merci»:[11] che è il vero mondo stregato, altro che il sabba! [12]
Note
[1] Cfr. Primo Levi, Opere, vol. III, Einaudi, Torino 1992.
[2] Ibidem.
[3] Si veda l’intervista di Nicoletta Poidimani a Georges Lapassade, “Neotenia-Neoetnia“, La balena bianca, n. 6 (gennaio 1993), pp. 47-61.
[4] Cfr. Christian Duverger, Il fiore letale. Economia del sacrificio azteco, traduzione di Andrea Calzolari, Mondadori, Milano 1981, pp. 79-81.
[5] Cfr. Laurette Séjourné, Il serpente piumato, traduzione di Cornélie Brancaccio di Carpino, Il Saggiatore, Milano 1983, p 166.
[6] Ibidem, p. 89.
[7] Cfr. Luciano Parinetto, Solilunio. Erano donne le streghe?, Antonio Pellicani editore, Roma 1991.
[8] Cfr. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1957, p. 192.
[9] Cfr. Georges Lapassade, Saggio sulla transe, a cura di Gianni de Martino, Feltrinelli, Milano 1980.
[10] Cfr. Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Newton Compton, Roma 1979, p. 1005.
[11] Ibidem, p. 76
[12] Cfr. Luciano Parinetto, La malia del soggetto soggetto ovvero il sabba del capitale, saggio introduttivo a Nicoletta Podimani, L’utopia nel corpo. Oltre le gabbie identitarie molteplicità in divenire, Mimesis, Milano 1998.