L’esplosivo della strage di piazza Fontana veniva dagli Usa e fu collocato nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura dai neofascisti di Ordine Nuovo, protetti dai servizi segreti italiani. In seguito, carabinieri di Padova (infiltrati dalla Loggia P2 di Licio Gelli?) “ripulirono” il deposito segreto di Venezia dove era stato custodito l’esplosivo americano, giunto in Italia attraverso la Germania, forse impiegato anche per la strage di piazza della Loggia a Brescia. E’ la possibile ricostruzione alla quale ha contribuito il generale Gianadelio Maletti, allora capo del Sid, l’intelligence militare italiana, ripercorrendo il drammatico scenario di quegli anni.
Maletti, trasferitosi in Sudafrica dopo la condanna per aver favorito la fuga all’estero dei neofascisti coinvolti nella strage, ha accettato di rispondere alle domande di tre giovani giornalisti – Andrea Sceresini, Nicola Palma e Maria Elena Scandaliato – che dall’intervista realizzata a Johannesburg hanno ricavato un’anteprima, pubblicata su “Il Fatto Quotidiano”, e il libro “Piazza Fontana, noi sapevamo”, edito da Aliberti. «In maniera obliqua e parziale, ma a suo modo illuminante», il generale Maletti «ricostruisce la trama della guerra segreta combattuta in Italia in quegli anni. Protagonisti, gli esecutori neofascisti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale, i loro protettori dentro gli apparati di Stato italiani, le ombre atlantiche».
In particolare, Maletti parla esplicitamente di un informatore del Sid infiltrato nel gruppo veneto di Ordine Nuovo, Gianni Casalini: nome in codice, fonte “Turco”. Il generale spiega come il Sid gli impedì di rivelare alla magistratura quello che aveva visto sugli attentati del 1969. E (fatto inedito) di come i carabinieri “bonificarono” il deposito da cui proveniva l’esplosivo americano delle stragi italiane. «Maletti risponde, racconta, non ricorda, spiega, nega, rivela». Non ha prove, dice: «Sono passati quattro decenni». Ma intanto conferma la probabile verità storica emersa dopo un’infinita saga giudiziaria: sotto la regia della P2 e di alti esponenti del governo ispirati dagli Usa, i servizi italiani incaricarono manovali neofascisti per innescare il terrorismo delle bombe: la strategia della tensione doveva fermare l’avanzata elettorale della sinistra.
«Per una legione di terroristi neri – scrive Paolo Biondani nell’introduzione al libro – è, semplicemente, “la bomba”. La prima. La più devastante. La strage per antonomasia». Per gli irriducibili della destra eversiva, resta «l’azione più riuscita». Ma anche per le contrapposte brigate dei terroristi rossi, prosegue Biondani, quello stesso eccidio di innocenti fu il detonatore (la sciagurata “giustificazione” ideologica) della lotta armata: è quando si delinea lo scenario della “strage di Stato” che l’autoproclamata avanguardia dell’ultrasinistra si arroga il diritto di sparare.
Per i familiari delle vittime, per tutti i cittadini che non dimenticano, è una ferita ancora aperta nella storia d’Italia. A cominciare dai depistaggi che portarono in carcere due anarchici, il ballerino Pietro Valpreda, ingiustamente detenuto prima di essere scagionato, e il ferroviere Giuseppe Pinelli, già combattente partigiano: anche lui innocente, Pinelli morì precipitando da una finestra della questura di Milano dopo il fermo per l’interrogatorio. A seguire, l’agguato “rosso” in cui fu ucciso il commissario Luigi Calabresi, erroneamente ritenuto responsabile della tragica morte di Pinelli.
«La strage di piazza Fontana è il nostro 11 settembre», scrive Biondani. «Il giorno della perdita collettiva dell’innocenza». La lunga stagione dell’odio politico, degli omicidi mirati e delle bombe indiscriminate comincia a Milano il 12 dicembre 1969. «Nel clima di revisionismo orwelliano che domina il paese, conviene che i più giovani sappiano poco e capiscano nulla della grande bomba, quella che inaugurò la serie nera di attentati che, dalla Calabria a Bologna, hanno insanguinato l’Italia per più di un decennio».
Quarant’anni di inchieste, processi e controinchieste – continua Biondani – hanno partorito una verità dimezzata: sentenze definitive autorizzano a scrivere che pezzi di Stato (ufficiali dei servizi segreti e dirigenti di polizia, all’ombra di ministri) hanno cancellato prove, zittito testimoni, favorito latitanti, per deviare le indagini giuste, quelle che puntavano troppo in alto. Tutto questo, contro lo Stato dei cittadini per il quale poliziotti, carabinieri e magistrati hanno lavorato duramente per cercare di arrivare alla verità: ma, per la strage che ha cambiato la nostra storia, non c’è ancora un solo condannato. «Un vuoto giudiziario, più apparente che reale, che autorizza i malintenzionati a mescolare colpevoli e innocenti, anarchici e neonazisti, segreti veri e misteri inventati in un caotico calderone nerofumo».
Qualche protagonista dei processi dimenticati, come il generale Maletti, «sicuramente custodisce altri capitoli di una più ampia verità storica, finora indicibile». Quarant’anni fa la “strage di Stato” sembrava uno slogan della sinistra. Ma oggi è proprio questa la realtà innegabile che ci regalano i fatti e i processi che hanno potuto ricostruirli: la diversità delle stragi nere, rispetto ai terrorismi che in altri paesi hanno magari seminato ancora più morti, è che in Italia c’era una parte dello Stato che combatteva contro lo Stato democratico.
Ora i magistrati della procura di Milano hanno aperto un’ultima istruttoria, ancora senza indagati, nel tentativo di scoprire altri spezzoni di verità giudiziaria. La nuova inchiesta parte dalla testimonianza, al processo per la strage di Brescia, del neofascista Gianni Casalini, che negli anni delle bombe nere fu un informatore del Sid di Maletti. Casalini ha ora confessato di aver collocato personalmente due ordigni sui treni alla stazione di Milano, nell’agosto 1969, insieme a Ivano Toniolo, un giovane pupillo del neofascista Franco Freda misteriosamente sparito dall’Italia ancor prima che cominciassero le indagini sui terroristi neri.
«Tutto questo – aggiunge Biondani – Casalini l’aveva raccontato già allora agli uomini di Maletti che, invece di informare i magistrati, ha fatto sparire tutte le carte. Ora, forse, il generale comincia a essere stanco di essere l’ufficiale di grado più alto a sopportare tutto il peso dei depistaggi di piazza Fontana. Tra tanti segreti ormai sepolti insieme ai loro custodi, solo un personaggio del suo livello potrebbe indicare le complicità superiori, le coperture internazionali. E i nomi dei mandanti che nessuna inchiesta ha ancora svelato».
L’indagine giornalistica di Sceresini, Palma e Scandaliato, realizzata grazie alla disponibilità di Maletti, è la sintesi straordinaria di un lavoro esemplare: un documento «che spiega con chiarezza le due vite della loggia filo-atlantica rappresentata da Licio Gelli, poi condannato come bancarottiere del crac Ambrosiano e depistatore della strage di Bologna». Nel quinquennio 1969-74, gli anni delle stragi, nella P2 entrano soprattutto le gerarchie militari, «riunite nel segno dell’autoritarismo e del golpismo», mentre la loggia di Gelli «finanzia segretamente i terroristi di destra».
Poi cambia lo scenario internazionale: negli Stati Uniti lo scandalo Watergate abbatte il presidente Nixon, innescando un effetto domino che in Grecia, per esempio, fa cadere il regime dei colonnelli, mentre in Italia i terroristi rossi cominciano a uccidere: ecco perché la destra eversiva non ha più bisogno di mettere le bombe per spaventare gli elettori di centro e criminalizzare l’opposizione di sinistra. Così, continua Biondani, «nel 1976 anche la P2 cambia linea. Basta eversione, ora si reclutano banchieri, imprenditori, finanzieri, politici, funzionari, giornalisti e magistrati, per un nuovo progetto sintetizzato nel cosiddetto “piano di rinascita democratica”: una specie di golpe bianco, che prevede di conquistare le istituzioni e svuotare la democrazia dall’interno, senza violenza visibile».
Per cambiare un’Italia che votava sempre più sinistra, per esempio, la ricetta era di cambiare la cultura popolare importando il modello americano della tv commerciale: parola d’ordine, «dissolvere il monopolio pubblico televisivo in nome della libertà d’antenna». Perché continuare a scavare nei segreti di piazza Fontana? Perché insistere ancora oggi a fare domande ai vecchi protagonisti della strategia della tensione? Forse perché – risponde Biondani – in Italia «hanno vinto loro».
(Il libro: Andrea Sceresini, Nicola Palma e Maria Elena Scandaliato, “Piazza Fontana, noi sapevamo”, Aliberti editore, 288 pagine, 17 euro).