sabato 13 giugno 2009

La partita non è chiusa, bisogna resistere e rilanciare, imparando dall’esperienza


La partita non è chiusa, bisogna resistere e rilanciare, imparando dall’esperienza

Intervista a Fosco Giannini, della direrione del PRC e direttore de l'Ernesto

Non si abbandona un progetto strategico solo perché in un passaggio elettorale è mancato lo 0,6% dei voti

Costruzione a sinistra di un vasto fronte sociale e politico di opposizione, con basi di massa, autonomo dalla strategia moderata e compatibilista
del Partito Democratico; costruzione di una convergenza unitaria – nella lotta - di tutto il sindacalismo di classe, confederale e di base, in piena autonomia dal progetto adattativo di CISL e UIL e di una parte della CGIL; autonomia e unità dei comunisti, per la ricostruzione processuale del loro partito.
Sono questi i tasselli di un progetto e di un processo in cui le diverse questioni vanno tenute insieme, ma non confuse, vanificate o compresse l’una o nell’altra.
Sono processi distinti, complementari, che in molti casi si intrecciano e si rafforzano a vicenda, a condizione che non vengano confusi l’uno con l’altro, pena il fallimento degli uni e degli altri.

Il nostro sito ha già espresso alcune valutazioni iniziali (tutte da approfondire) sulla dimensione europea del voto del 6-7 giugno. Vuoi provare a mettere a fuoco una prima riflessione sulla dimensione italiana di quel voto, a partire dal non raggiungimento del quorum da parte della lista comunista e anticapitalista?

Sento in primo luogo l’esigenza di proporre a tutte/i i militanti comunisti e della sinistra, ovunque collocati, una lettura severa, rigorosa, ma non disfattista del mancato raggiungimento del quorum. E sento il dovere di chiedere ai dirigenti comunisti ( di ogni livello: di Circolo, di fabbrica, di Federazione e nazionali) di non disorientare, di respingere ogni sentimento di abbandono e delusione ma, al contrario, di sollevare lo stato d’animo, di rincuorare, di richiamare all’impegno e alla lotta. Guai a noi se lasciassimo passare, nonostante le obbiettive (e comprensibili) difficoltà politiche e psicologiche del momento, uno stato d’animo di rinuncia o di resa. Saremmo degli strani rivoluzionari se bastasse uno 0,6% per cento di voti in meno (la cui portata certo non sottovaluto), per farci abbandonare un progetto politico che ha una dimensione strategica, vorrei dire persino una sua proiezione storica.

Se avessero fatto così le poche migliaia di militanti comunisti italiani rimasti a combattere nell’Italia degli anni Venti e Trenta, non vi sarebbe stata alcuna Resistenza popolare negli anni successivi.

Quando parli di un progetto strategico, a cosa ti riferisci concretamente?

In estrema sintesi potrei dirti: ricomporre l’autonomia e l’unità politica, teorica e organizzativa dei comunisti in Italia in un solo partito, come perno e fattore dinamico contestuale – non c’è un prima e un poi – della ricostruzione di un ben più vasto schieramento sociale e politico di lotta per il cambiamento della società.

Ciò significa oggi in primo luogo costruire un fronte sociale e politico di forte opposizione alla politica di questo governo, in piena autonomia dalla politica moderata e compatibilista del Partito Democratico, ma capace di coinvolgere – nella lotta - una parte significativa della sua base sociale popolare, operaia, di sinistra.

Pensi dunque che il Partito Democratico, e le socialdemocrazie europee in genere, siano esposte ad emorragie verso sinistra, oltre che verso destra?

Il voto europeo evidenzia una crisi profonda delle socialdemocrazie, delle sinistre moderate, che va acquisendo caratteri non contingenti, dunque di grande interesse sia per le forze conservatrici (che in questa crisi pescano a piene mani), ma anche – in positivo - per le forze comuniste e anticapitaliste, che in alcuni paesi europei conseguono su questo terreno risultati importanti.

Dove i partiti comunisti (di impianto e cultura leninista) mantengono e sviluppano il loro radicamento e il loro ruolo sociale e politico di classe (penso ad esempio alla Grecia e al Portogallo) si allarga – grazie a questo ruolo – anche uno spazio sociale, politico, anche culturale per una sinistra critica, non comunista (vedi Synaspismos greco e Bloco de Izquierda portoghese) in grado di raccogliere ed organizzare la diaspora socialdemocratica e capace di diventare punto di riferimento per spezzoni di sinistra sociale e politica non immediatamente conquistabili dai partiti comunisti. Tutto il baricentro si sposta a sinistra, poiché anche il movimento sindacale (dove è forte, radicato ed influente un partito comunista) assume caratteri di classe e di lotta.

In Grecia e Portogallo, ad esempio, non solo il voto europeo conferma la tenuta o l’avanzata dei due partiti comunisti, fortemente insediati nelle organizzazioni sindacali e nel mondo del lavoro (il KKE è all’8,4%, il PCP al 10,7); ma evidenzia anche la crescita di due formazioni di nuova sinistra (il Synaspismos raggiunge il 4,7%, il Bloco de Izquierda raddoppia i suoi voti e cresce fino al 10,7%). Ne deriva, complessivamente, una realtà a sinistra della socialdemocrazia, che occupa uno spazio sociale, politico ed elettorale del 15-20%, che spezza il bipolarismo e il bipartitismo, si inserisce nella crisi della socialdemocrazia liberale, e ne insidia l’egemonia a sinistra.

E ciò avviene perché ognuno “fa la sua parte”: i comunisti fanno i comunisti (con i loro limiti, e certo non indico modelli…) e gli altri fanno la loro. Se dovessero fondersi – come qualcuno vorrebbe fare in Italia – in formazioni indistinte “di sinistra”, puoi star certo che sarebbero guai per tutti, ne verrebbero fuori litigiose ed eterogenee formazioni, pronte a dividersi alla prima seria divergenza.

Perché allora questa differenza così marcata tra Portogallo e Grecia, da una parte, e ad esempio Spagna e Italia dall’altro?

Bisognerebbe qui riflettere più a fondo, tentando anche un bilancio storico dell’eurocomunismo e del processo di socialdemocratizzazione dei partiti comunisti di Spagna, Italia e Francia (un processo che viene da lontano). Non è probabilmente un caso se, soprattutto in Spagna e in Italia (più segnati della Francia dall’esperienza eurocomunista) ci troviamo oggi vicini al rischio di estinzione (o autoestinzione) non solo dei partiti comunisti, ma anche delle formazioni di “nuova sinistra”.

Più articolata è la situazione in Francia, dove l’esistenza di un PCF strutturato e ancora “in mezzo al guado”, la persistenza di una sinistra socialista (esterna al PS) più combattiva, e di componenti trotzkiste che hanno mantenuto una loro influenza di massa, fa sì che – diversamente da Italia e Spagna – il campo della sinistra anticapitalistica francese vi esprima complessivamente un’area attorno al 12-13 %, ancorché assai divisa e frastagliata (anche all’interno stesso del PCF, il cui avvenire resta incerto).

In una fase che dura da circa vent’anni, essenzialmente causata dalla ferrea volontà del capitale di non stringere compromessi col mondo del lavoro, di respingere politiche keynesiane puntando all’abbattimento dei salari, dei diritti e dello stato sociale, la crisi della socialdemocrazia liberale europea trova le sue basi materiali nell’impossibilità (e non volontà) di operare – quando governa – una drastica redistribuzione del reddito per fornire risposte sociali anche minime al movimento operaio e ai popoli, duramente colpiti dalla crisi capitalistica e dalle “compatibilità” dei vari capitalismi nella competizione globale.

E senza possibilità di redistribuzione della ricchezza sociale, le socialdemocrazie liberali perdono ruolo sociale e senso storico, entrano in crisi di consenso e di radicamento rispetto al loro insediamento sociale popolare, operaio, più colpito dalla crisi. Si apre qui uno spazio potenziale di consenso, di organizzazione, di lotta, per le forze comuniste e anticapitaliste: ma ciò richiede che la loro forza, credibilità, soggettività sia all’altezza della situazione, e spesso non è così o non lo è stato. E allora, in questi casi, il malcontento dei ceti più poveri va a destra, o si rifugia nell’astensione e in un qualunquismo disfattista.

Che cosa pensi dell’avanzata della Linke tedesca, che molti indicano come una sorta di modello da imitare?

E’ un fatto positivo che la Linke sia avanzata (dal 6,1 al 7,5 %), ma vorrei dire col massimo di nettezza che quella esperienza ha una peculiarità storica (la riunificazione delle due Germanie) che la rende del tutto imparagonabile alle altre esperienze europee, e tanto meno esportabile, come dicono per primi gli stessi compagni tedeschi.

Tale esperienza nasce dal processo di unificazione di due formazioni politiche non comuniste, di ispirazione dichiaratamente socialista e/o socialdemocratica (come la WASG di Lafontaine e la PDS post-comunista), espressioni per giunta di due entità geo-politiche che fino a poco più di 15 anni fa erano addirittura due Stati appartenenti a due blocchi contrapposti. E con una ricorrente campagna anticomunista in Germania che accusa la componente ex PDS di essere una entità in cui si annidano migliaia di agenti della Stasi (il servizio segreto della ex DDR). In quale altro paese europeo esiste un dibattito di questa natura?

C’è senz’altro una limpida coerenza politico-ideologica, apertamente dichiarata, in questa fusione socialdemocratica di sinistra tra Wasg e PDS, che però ha poco a che vedere con la problematica della rifondazione di un partito comunista, che è altra cosa.

Veniamo ancora all’Italia. C’è chi sostiene che il mancato raggiungimento del 4% rappresenta una sconfitta di fase, che richiede pertanto un mutamento radicale di linea politica. Tu che ne pensi?

Il superamento del 4% sarebbe stato simbolicamente un obiettivo molto importante e con la conquista di alcuni parlamentari europei vi sarebbero state basi materiali e risorse aggiuntive importanti. Tuttavia: se il processo unitario dei comunisti era giusto e necessario prima del voto, se il partito comunista è un’esigenza sociale e storica (come è) e non una coazione a ripetere, una fissazione nella testa di alcuni, tale esigenza non è cancellata dalla mancanza di uno 0,6% di consensi. Saremo obbligati a fare politica meglio, con meno sprechi, ottimizzando l’uso delle risorse.

Le difficoltà che abbiamo trovato sul cammino sono state immense: la lista comunista unitaria è andata alle elezioni sulla scorta di una sconfitta storica, quella dell’Arcobaleno, non ancora “espulsa” dal senso comune del nostro popolo; siamo andati alle elezioni sulla scorta di una pesantissima scissione avvenuta nelle file del PRC, la scissione dell’area Vendola, di Sinistra e Libertà, che ha trovato appoggi importanti sia nel PD che negli stessi “media” borghesi, erodendo consensi ; siamo giunti al voto con l’improvvisa entrata in campo del PCL di Marco Ferrando, che ha eroso anch’esso (disperdendoli consapevolmente) consensi decisivi per il possibile raggiungimento del 4% ; abbiamo assistito alla deplorevole azione di certi “dirigenti comunisti” che per frustrazione e opportunismo hanno vigorosamente lavorato al fine di spostare consensi comunisti verso Di Pietro, per far consapevolmente del male alla Lista comunista; siamo andati al voto sotto una cappa egemonica di destra terrificante e sotto un dominio dei media che ha letteralmente espulso (molto più dei radicali di Pannella) i comunisti dalle televisioni e dai giornali; abbiamo aperto la campagna elettorale in ritardo, rispetto ad altre forze, poiché nel PRC persistevano dubbi e contrarietà rispetto alla Lista comunista unitaria e tali dubbi non hanno certo aiutato a mettere in campo la giusta passione politica per la Lista ed il progetto che essa sottendeva ( chi ha fatto la campagna elettorale, chi è stato nei mercati e davanti alle fabbriche sa che pochi lavoratori e cittadini esterni ai due partiti comunisti sapevano della costituzione della Lista comunista unitaria e quando si spiegava a chi non sapeva nulla che era partito il processo unitario dei comunisti la risposta era sempre la stessa : “finalmente un po’ di unità: la voto!”. Ma, appunto, per mille motivi, pochi sapevano…

Infine, vi sono state aree e Federazioni, all’interno del PRC – poco innamorati ( per usare un eufemismo) della Lista unitaria – che sicuramente non si sono dannate l’anima nella campagna elettorale e ciò si è aggiunto alla fragilità organizzativa – che la campagna elettorale ha dimostrato tutta – che segna ormai una parte significativa dell’intero PRC. Con tutto ciò abbiamo raggiunto il 3,4 % su una Lista comunista, più di quanto non avessero ottenuto le forze dell’Arcobaleno nel loro insieme.

Dico tutto questo non per esorcizzare il problema del radicamento dei comunisti in Italia e le loro debolezze strutturali; dico questo affinché non si creda (e non si dica) che la base materiale della sconfitta sia da rintracciare nel progetto unitario che ispirava (e ispira) la Lista comunista. Anzi, dobbiamo dire che con ogni probabilità è stato proprio questo progetto unitario a permetterci di riconquistare una parte significativa dell’elettorato e della militanza comunista.

Non è il momento di mollare, proprio adesso che abbiamo comunque invertito una tendenza. C’è spazio per ripartire, anche in Italia, come si è visto anche in altri paesi europei.

Che fare dunque, qui ed ora?

Primo: non farci intimorire o deludere dal mancato raggiungimento del 4% e rilanciare con determinazione il progetto dell’unità dei comunisti, della riunificazione dei due partiti comunisti e della riorganizzare della diaspora comunista. A partire da quel milione e 200 mila di persone che ci hanno dato fiducia.

Secondo: lavorare alla costruzione a sinistra di un vasto fronte sociale e politico di opposizione, con basi di massa, autonomo dalla strategia moderata e compatibilista del Partito Democratico. Esso non si costruisce su base ideologiche, ma con un programma minimo d’azione, attorno ad alcuni obbiettivi qualificanti e condivisi, di forte impatto sociale.

Terzo: costruire una convergenza unitaria – nella lotta - di tutto il sindacalismo di classe, confederale e di base, in piena autonomia dal progetto subordinato di CISL e UIL e di una parte della CGIL. Senza una sponda sindacale, l’appello alla mobilitazione sociale organizzata resta una parola vuota.

Quarto: autonomia e unità dei comunisti, per la ricostruzione processuale del loro partito. E ciò è cosa distinta (semmai complementare) dalla costruzione di un “polo di sinistra”; e richiede la strutturazione di suoi peculiari momenti di riflessione teorica, di dibattito politico, di iniziativa nel Paese. Su ciò chiediamo a tutti impegni e pronunciamenti chiari, e non bisticci di parole.

Sono questi, a mio modesto avviso, i tasselli di un progetto e di un processo in cui le diverse questioni vanno tenute insieme, ma non confuse, vanificate o compresse l’una nell’altra.

Sono processi distinti, complementari, che in molti casi si intrecciano e si rafforzano a vicenda, a condizione che non vengano confusi l’uno con l’altro, pena il fallimento degli uni e degli altri.

A cura della redazione, 9 giugno 2009

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