mercoledì 28 gennaio 2009

L'ESERCITO DEL MALE

Era nell'aria. Che è mefitica. Berlusconi usa gli episodi di violenza sulle donne per scatenare una vera e propria campagna liberticida, che con l'obiettivo di mettere argine alle aggressioni a sfondo sessuale c'entra come i cavoli a merenda. Per il presidente del Consiglio è in corso una vera e propria guerra, alla quale rispondere con strumenti coerenti. Ad un non meglio definito «esercito del male» che minaccia mortalmente la civile convivenza serve opporre l'esercito vero, quello di Stato. Dunque, non più tre, ma trentamila uomini armati a presidiare le città italiane. Coordinati - aggiunge un La Russa in preda ad esaltazione mistico-bellica - dalla Guardia di Finanza, dalla Polizia penitenziaria, dalla Polizia locale. Tanto da suscitare la reazione del ministro degli Interni che chiede (udite! udite!) di unire alla presenza militare anche misure capaci di affrontare il tema del degrado ambientale nel cui brodo si producono situazioni di pericolosità sociale. La fabbrica della paura, sapientemente alimentata, marcia a pieni giri. E' la paranoia di stampo bushista in versione nostrana. Ricordate la crociata contro gli «Stati canaglia?». Quella fu propedeutica alla teorizzazione della guerra preventiva e di una politica di aggressione che sta provocando lutti e catastrofi sociali immani su scala planetaria; questa - con identica intenzione fraudolenta - prova ad instaurare un clima di infondato terrore per giustificare una militarizzazione della società. Non vi è persona talmente avara di buon senso da non capire che non sarà mai l'esercito a contrastare "la criminalità diffusa" o la violenza, in particolare quella sulle donne, che oltre tutto si consuma - non lo si dimentichi - in massima parte tra le mura domestiche. E allora, perché questo forsennato accanimento? Perché questa scoppiettante prosopopea con cui si annuncia la lotta dura del governo contro il crimine, in un paese surrealmente dipinto come la Gotham City batmaniana? Con tutta evidenza, il battage ha altri e diversi obiettivi. Il primo è la collaudata opera di depistaggio dell'opinione pubblica, dei cittadini, ai quali si propinano emergenze immaginarie per occultare quelle reali, che hanno a che fare, più ruvidamente, con la precarietà materiale ed esistenziale in cui la crisi sta precipitando milioni di persone senza trovare nelle misure del governo risposte adeguate.Il secondo ha ben altra gravità, perché rivela la filigrana della politica governativa in materia di sicurezza: vis persecutoria contro i migranti, reato di immigrazione clandestina, limitazione degli spazi pubblici alle manifestazioni, contrasto all'esercizio del diritto di culto. E poi, il pacchetto giustizia del governo, che mentre ingessa le prerogative e gli strumenti di indagine della magistratura inquirente, lancia un piano edilizio per la proliferazione degli istituti di pena (da privatizzare!), più per moltiplicare (per dieci, anche in questo caso?) il numero dei reclusi che non per affrontare il drammatico problema del disumano sovraffollamento delle carceri. La verità è che siamo di fronte ad un salto di qualità nell'escalation autoritaria, nella torsione antidemocratica, nella compressione dei diritti e delle libertà costituzionali. Si guardi a quel che sta accadendo, nelle parti e nell'insieme, e se ne avrà per intero l'inquietante percezione. Una (piccola?) chiosa finale: il giorno dopo un accordo contro i lavoratori e contro il più grande sindacato italiano il governo militarizza le piazze. Coincidenze?
Dino Greco
Liberazione del 25.01.2009

L'EQUILIBRISTA


«Né con la Cgil, né contro»

Né con la Cgil ma neanche esplicitamente contro. In mezzo, insomma, come ha sempre provato a fare il Piddì in quest'anno e mezzo di vita. In mezzo, ad essere sinceri: un po' più spostati sul «lato» del governo ma sostanzialmente al centro. Si parla, come è facile capire, dell'accordo separato scritto dalla Confindustria e da Sacconi e subito sottoscritto da Cisl e Uil. Senza la Cgil. Un accordo che, com'era facile prevedere, ha finito per squassare quasi esclusivamente il Partito democratico. Una situazione dalla quale, ieri, il segretario Veltroni ha provato a uscire nel solito modo. Inventandosi una sorta di terza strada (appunto: né con la Cgil, né contro): in pillole ha detto che sì, il sistema contrattuale va riformato da cima a fondo e che le risorse andrebbero destinate soprattutto alle vertenze aziendali. Cosa che del resto era messa nero su bianco nel programma elettorale del Piddì. Quindi in linea di massima, il contenuto dell'intesa separata non dovrebbe dispiacere a Veltroni. Solo che, aggiunge il segretario, una riforma di queste dimensioni non si può fare escludendo il più grande sindacato. E allora? Allora ecco la proposta. Che, a ben vedere, è la stessa identica che accompagnò le fasi finali della trattativa per la cessione dell'Alitalia. Il segretario dei democratici insomma chiede un supplemento di trattativa, per consentire il ritorno della Cgil al tavolo. Tutto qui: nessun commento sull'abrogazione del contratto nazionale, nulla neanche sulla possibilità offerta alle imprese di scendere sotto i minimi contrattuali. Veltroni, insomma - come del resto suggeriscono gli uomini del suo staff - pensa solo a chiudere presto la vicenda. Magari suggerendo alla Cisl, alla Uil e alla Marcegaglia di scrivere una paginetta di premessa all'accordo, con dentro anche qualche impegno del governo ad intervenire a sostegno dei redditi e così convincere Epifani a firmare.
Difficile dire se questo basterà alla Cgil. Sicuramente comunque l'escamotage pensato da Veltroni non basterà a mettere la sordina alla discussione interna. Che sta diventando esplicita, come mai forse è accaduto nel Partito democratico. Le tappe che hanno portato a surriscaldare il dibattito interno sono note: ha cominciato D'Alema, spiegando che un'intesa su un argomento di questa portata non può avere valore senza la firma della confederazione più rappresentativa. E in più, l'ex ministro degli Esteri ci ha aggiunto la richiesta che, almeno, l'intesa sia sottoposta al giudizio dei lavoratori, con un referendum. La risposta non s'è fatta attendere. Uno dopo l'altro sono insorti prima Marini, poi via via gli altri ex margheritini che hanno mantenuto uno stretto legame con la Cisl. Fino ad arrivare a Fioroni. Tutti hanno parlato di accordo epocale, hanno denunciato la «scelta politica più che sindacale» operata da Epifani, invitandolo a ripensarci. La contro-reazione a difesa della Cgil, ha fatto salire ancora di più la temperatura: perché ha fatto uscire allo scoperto dirigenti che fino ad allora s'erano tenuti in disparte, come l'ex ministro Damiano, e ha sparigliato le carte. Per dirne una, anche Piero Fassino ha scelto di collocarsi decisamente all'opposizione interna. Almeno su questo tema sta con Bersani, è contro Veltroni. Senza contare che anche nel «fronte cattolico» si sono manifestate le prime defezioni: naturalmente si parla di Rosi Bindi - che ancora ieri sosteneva la necessità non tanto di coinvolgere la Cgil ma di tener conto delle sue obiezioni - ma non solo di lei. Per esempio, tutta la componente che all'epoca dei Diesse si chiamava «Cristiano sociali» non sembra disposta a tollerare lo strappo con la Cgil.
Dunque oggi Veltroni si trova un po' più solo. Incalzato addirittura dagli alleati-concorrenti dell'Idv che all'improvviso sembrano aver scoperto una vocazione sociale. Queste le parole del capogruppo del partito di Di Pietro al Senato, Belisario: «Isolare il maggior sindacato è un errore che il paese non può permettersi». Un po' più solo, allora. E per tutti valgano le parole di Gianni Cuperlo. Deputato, fino a ieri dirigente dei Diesse, che la geografia interna assegna ai dalemiani, anche se ha sempre mantenuto un ruolo autonomo. In ogni caso è un profondo conoscitore di cosa sia davvero questo partito. E Cuperlo ci dice così: «Le responsabilità sono soprattutto del governo, è evidente, perché non si fa un'intesa su argomenti così rilevanti a prescindere, chiudendo la porta in faccia al pezzo più importante del sindacato». Le «colpe» sono del governo, dunque. Ma non solo: «Veltroni anche poco fa ha detto che è normale in un grande partito avere posizioni differenti. Questa discussione avviene però dopo la vicenda di Eluana, avviene dopo le tensioni interne su Gaza. Tutto ci dice allora che è arrivato il momento di affrontare la questione vera, la più seria: è arrivato il momento di discutere del profilo di questo partito. Cosa è, cosa vuole essere». Cuperlo dice di più: «E' arrivato il momento di discutere delle ragioni che ci tengono assieme». Poi aggiunge: «E' arrivato il momento di discutere del "se" dobbiamo stare assieme». Sembra l'inizio di un congresso. E magari stavolta sarà pure vero.


Liberazione del 27.01.2009

martedì 20 gennaio 2009

Gaza


Gaza

di José Saramago

La sigla ONU, lo sanno tutti, significa Organizzazione delle Nazioni Unite, vale a dire, alla luce dei fatti, niente o troppo poco. Possono affermarlo i palestinesi, le cui scorte alimentari stanno finendo, o sono già finite, perché così ha imposto l'assedio israeliano, deciso evidentemente per condannare alla fame le 750 mila persone registrate come rifugiati. Manca già il pane, sta per finire la farina, l'olio, le lenticchie e lo zucchero stanno per seguire lo stesso destino. Dal 9 dicembre i camion dell'agenzia delle Nazioni Unite, carichi di cibo, attendono che l'esercito israeliano permetta loro di entrare nella Striscia di Gaza, autorizzazione che verrà ancora una volta negata o rimandata fino all'ultima disperazione e l'ultima esasperazione dei palestinesi affamati. Nazioni Unite? Unite? Contando sulla complicità o la vigliaccheria internazionali, Israele si prende gioco delle raccomandazioni, delle decisioni e delle proteste e fa ciò che vuole, quando e come vuole. È arrivato al punto di proibire l'ingresso di libri e strumenti musicali, come se si trattasse di prodotti che possono mettere in pericolo la sicurezza di Israele. Se il ridicolo uccidesse, non resterebbero in piedi un solo politico né un solo soldato israeliano, specialisti in crudeltà, addottorati in disprezzo, persone che guardano al mondo dall'alto della insolenza che sta alla base della loro educazione. Comprendiamo meglio il loro dio biblico ora che conosciamo i suoi seguaci. Jehova, o Yahvé, o come lo si chiami, è un dio vendicativo e feroce che gli israeliani mantengono permanentemente attuale.

mercoledì 14 gennaio 2009

Il nostro caro Pd


Gaza/ Da Fassino a Ronchi, fronte bipartisan a serata pro-Israele

In sala anche Cicchitto, Gasparri, Colombo, Ranieri

[...] il messaggio che tutti hanno portato è uno: la responsabilità di quello che sta accadendo è di Hamas, che ha rotto la tregua e da anni bersaglia Israele con i missili.

Vomito dove capita...

Angeli a pezzi


Sono e rimango dell'idea che l'orrore vada sbattuto in faccia, in maniera martellante, sistematica, a costo di assuefare la gente ad esso, a costo di arrivare al punto che l'orrore passi in Tv tra uno spaghetto ed una polpetta, tra un rutto alcolico ed il caffè. Ma almeno non ci sarebbero più scusanti, non ci si potrebbe nascondere dietro uno stucchevole "non sapevo". E finalmente si potrebbe affermare che ci sono bestie nell'esercito e nel governo israeliano come ci sono bestie tra di noi. Indifferenti, ciniche ed ignoranti.

Detto questo, ho preferito mettere in evidenza quel disegno piuttosto che la testa mozzata di una bambina palestinese, foto che apre il blog di Vittorio Arrigoni, un pezzo di un angelo, cioè del messaggero, dell'inviato. Quella foto difatti si fa messaggera di un bestiale genocidio perpetrato negli anni, e che oggi vede uno dei suoi momenti più disumani prendere forma a Gaza, sotto forma di pezzi di bambini che, come in un puzzle macabro, messi insieme formano il quadro del massacro.

Ma l'orrore non si ferma qui, non si spegne nella crudezza di quelle immagini di morte. No. Il dolore si trasforma in indignazione non solo per la disparità delle forze in campo o per il regime mediatico che fa disinformazione, ma perché Vittorio Arrigoni e gli altri eroi che rischiano la propria vita per raccontarci la realtà sono stati minacciati di morte da Israele e dagli Usa. Ad esempio è stato creato un sito apposito che riporta foto e dati segnaletici di Arrigoni, nel quale viene indicato come bersaglio numero uno delle forze militari israeliane, e si riporta la frase "liberarcene per sempre".

Al peggio non c'è mai fine. Restate umani (Arrigoni docet)

lunedì 12 gennaio 2009

sabato 10 gennaio 2009

Resoconto giornaliero di un genocidio


"Prendi dei gattini, dei teneri micetti e mettili dentro una scatola" mi dice Jamal, chirurgo dell'ospedale Al Shifa, il principale di Gaza, mentre un infermiere pone per terra dinnanzi a noi proprio un paio di scatoloni di cartone, coperti di chiazze di sangue. "Sigilla la scatola, quindi con tutto il tuo peso e la tua forza saltaci sopra sino a quando senti scricchiolare gli ossicini, e l'ultimo miagolio soffocato." Fisso gli scatoloni attonito, il dottore continua "Cerca ora di immaginare cosa accadrebbe subito dopo la diffusione di una scena del genere, la reazione giustamente sdegnata dell'opinione pubblica mondiale, le denunce delle organizzazioni animaliste..." il dottore continua il suo racconto e io non riesco a spostare un attimo gli occhi da quelle scatole poggiate dinnanzi ai miei piedi. "Israele ha rinchiuso centinaia di civili in una scuola come in una scatola, decine di bambini, e poi la schiacciata con tutto il peso delle sue bombe. E quale sono state le reazioni nel mondo? Quasi nulla. Tanto valeva nascere animali, piuttosto che palestinesi, saremmo stati più tutelati."

Vittorio Arrigoni, continua...

Erano e restano nemici dello Stato


Una proposta di legge assegna lo status di combattente a chi aderì a Salò
Intervista a Giuliano Vassalli, presidente emerito della Corte Costituzionale

"Nessun riconoscimento ai
repubblichini
Erano e restano nemici dello Stato"

di MATTEO TONELLI


ROMA - "Che vuole che le dica, la situazione è difficile ma bisogna fare di tutto per far sapere come stanno realmente le cose. Chiarire a chi non l'ha vissuto cosa è stato quel periodo storico". Giuliano Vassalli, presidente emerito della Corte Costituzionale, classe 1915, è amareggiato ma non rassegnato. A lui, arrestato e torturato durante il fascismo, il nuovo tentativo di "equiparare" per legge partigiani, deportati e militari ai repubblichini di Salò, proprio non piace.

Per farlo il Pdl ha presentato una proposta che ha come primo firmatario Lucio Barani del Nuovo Psi (schierato con il centrodestra). Un disegno di legge, il numero 1360, con il quale la maggioranza pretende di istituire l'Ordine del Tricolore, con tanto di assegno vitalizio. Assegnandolo indistintamente sia ai partigiani, sia "ai combattenti che ritennero onorevole la scelta a difesa del regime ferito e languente e aderirono a Salò". Un testo che l'Anpi bolla come "l'ennesimo tentativo della destra di sovvertire la Storia d'Italia e le radici stesse della Repubblica"

Presidente Vassalli un'operazione analoga fu tentata anche nelle precedenti legislature, ma venne respinta. Adesso il tentativo riprende vigore. Perché è contrario?
"Perché è assolutamente chiaro che c'è stata la continuità dello Stato anche dopo l'8 settembre e la caduta del fascismo. E non si può riconoscere a chi ha contrastato lo stato italiano sovrano schierandosi con la Repubblica sociale il titolo di combattente. La Cassazione è chiara in merito. Tutte quelle pronunce sono concordi nel definire i repubblichini come nemici".

Lo scorso 2 giugno il ministro della Difesa Ignazio Larussa chiese di accumunare i morti "di entrambe le parti". I firmatari parlano di "un progetto coerente con la cultura di pace della nuova Italia".
"Ma cosa vogliono ancora? Hanno avuto tutto, l'amnistia di Togliatti, la legittimazione democratica immediata, l'Msi in Parlamento, adesso sono al potere. Eppure vanno avanti, incuranti del fatto che non esiste paese in Europa dove i collaborazionisti del nazismo sono premiati".

La formulazione del testo apre la porta anche alla legittimazione a tutti coloro che "facevano parte delle formazioni che facevano riferimento alla Rsi". Non solo dunque agli appartenenti delle 4 divisioni dell'esercito ma anche a chi faceva parte delle "brigate nere".
"E' vero ma non c'è spazio per sottilizzare troppo. Lo status di combattente non va riconosciuto a nessuno di coloro che fecero parte della Rsi. Bisogna dire no e non solo per ragioni politiche ma anche dal punto di vista costituzionale".

Martedi 13 gennaio alle 16, Giuliano Vassalli interverrà all'iniziativa organizzata dall'Anpi dal titolo "Totalitarismo e democrazia, occorre rispettare la lezione della storia". Nell'incontro, che si terrà nella sala del Cenacolo della Camera dei Deputati (vicolo Valdina 3/a), si parlerà della proposta di legge 1360. Intervengono, tra gli altri, lo storico Claudio Pavone, il vicepresidente dell'Anpi Raimondi Ricci e la presidente della commissione difesa della Camera Marina Sereni.

(8 gennaio 2009)

giovedì 8 gennaio 2009

Quello che non sapete su Gaza


Il NYTimes di oggi pubblica un articolo interessante di Rashid Khalidi, professore di studi arabi alla Columbia, autore di “Sowing Crisis: The Cold War and American Dominance in the Middle East”.

* * *

Quello che non sapete su Gaza

di Rashid Khalidi

Quasi tutto quello che siete stati portati a credere su Gaza è sbagliato. Alcuni punti essenziali sembrano mancare dal discorso, svoltosi per lo più sulla stampa, circa l’attacco di Israele alla striscia di Gaza.

Il popolo di Gaza
La maggioranza di chi vive a Gaza non è lì per scelta. Un milione e cinquecentomila persone stipate nelle 140 miglia quadrate della striscia di Gaza fanno parte per lo più di famiglie provenienti dai paesi e dai villaggi attorno a Gaza come Ashkelon e Beersheba. Vi furono condotte a Gaza dall’esercito israeliano nel 1948.

L’occupazione
Gli abitanti di Gaza vivono sotto l’occupazione israeliana dall’epoca della Guerra dei sei giorni (1967). Israele è tuttora considerata una forza di occupazione, anche se ha tolto le sue truppe e i suoi coloni dalla striscia nel 2005. Israele controlla ancora l’accesso all’area, l’import e l’export, e i movimenti di persone in ingresso e in uscita. Israele controlla lo spazio aereo e le coste di Gaza, e i suoi militari entrano nell’area a piacere. Come forza di occupazione, Israele ha la responsabilità di garantire il benessere della popolazione civile della striscia di Gaza (Quarta Convenzione di Ginevra).

Il blocco
Il blocco della striscia da parte di Israele, con l’appoggio degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, si è fatto sempre più serrato da quando Hamas ha vinto le elezioni per il Consiglio Legislativo Palestinese nel gennaio 2006. Carburante, elettricità, importazioni, esportazioni e movimento di persone in ingresso e in uscita dalla striscia sono stati lentamente strozzati, causando problemi che minacciano la sopravvivenza (igiene, assistenza medica, approvvigionamento d’acqua e trasporti).

Il blocco ha costretto molti alla disoccupazione, alla povertà e alla malnutrizione. Questo equivale alla punizione collettiva –col tacito appoggio degli Stati Uniti- di una popolazione civile che esercita i suoi diritti democratici.

Il cessate-il-fuoco
Togliere il blocco, insieme con la cessazione del lancio dei razzi, era uno dei punti chiave del cessate-il-fuoco fra Israele e Hamas nel giugno scorso. L’accordo portò a una riduzione dei razzi lanciati dalla striscia: dalle centinaia di maggio e giugno a meno di venti nei quattro mesi successivi (secondo stime del governo israeliano). Il cessate-il-fuoco venne interrotto quando le forze israeliane lanciarono un imponente attacco aereo e terrestre ai primi di novembre; sei soldati di Hamas vennero uccisi.

Crimini di guerra
Colpire civili, sia da parte di Hamas che di Israele, è potenzialmente un crimine di guerra. Ogni vita umana è preziosa. Ma i numeri parlano da soli: circa 700 palestinesi, per la maggior parte civili, sono stati uccisi da quando è esploso il conflitto alla fine dello scorso anno. Per contro, sono stati uccisi 12 soldati israeliani, per la maggior parte soldati. Il negoziato è un modo molto più efficace per affrontare razzi e altre forme di violenza. Questo sarebbe successo se Israele avesse rispettato i termini del cessate-il-fuoco di giugno e tolto il suo blocco dalla striscia di Gaza.

Questa guerra contro la popolazione di Gaza non riguarda in realtà i razzi. Né riguarda il “ristabilire la deterrenza di Israele”, come la stampa israeliana vorrebbe farvi credere. Molto più rivelatrici le parole dette nel 2002 da Moshe Yaalon, allora capo delle Forze di Difesa israeliane: ”Occorre far capire ai palestinesi nei recessi più profondi della loro coscienza che sono un popolo sconfitto.”

martedì 6 gennaio 2009

IL BOICOTTAGGIO DELL'ECONOMIA DI GUERRA ISRAELIANA


Il boicottaggio dell'economia di guerra israeliana è stato lanciato - ormai da quasi due anni - in primo luogo da gruppi e personalità progressisti ebraici negli Stati Uniti e nella stessa Israele. Anche Neta Golan, a Roma per la manifestazione del 9 marzo 2002, ha rilanciato questa campagna civile per la fine dell'occupazione militare e coloniale della Palestina; da quella data, la campagna per il boicottaggio ha iniziato a prendere piede in varie forme su scala internazionale, oltre i confini del mondo arabo, dove i prodotti israeliani sono all'indice da sempre e dove - più in teoria che in pratica, per la verità - dovrebbe essere in vigore un boicottaggio ufficiale promosso dalla Lega Araba. Iniziative forti per la protezione del popolo palestinese e per il boicottaggio dell'economia di guerra israeliana sono in atto anche in Canada, particolarmente nel Quebec, promosse congiuntamente da comitati di solidarietà con i Palestinesi e gruppi ebraici progressisti. Alcuni gruppi, soprattutto in Israele, sostengono il boicottaggio delle merci e dei prodotti provenienti dai Territori Occupati e dalle alture del Golan e contrassegnati illegalmente "Made in Israel"; dopo l'adesione a questa posizione da parte di alcune catene di distribuzione inglesi, il governo britannico ha proibito la vendita di questi prodotti sul territorio del Regno Unito.

Tutte le infromazioni qui:
e qui:

Accelerare i tempi della mobilitazione per fermare il massacro a Gaza





1. Il lancio dell’offensiva militare terrestre da parte israeliana impone a tutte le forze impegnate a cercare di fermare il genocidio in corso a Gaza di velocizzare la tabella di marcia. Non sappiamo se l’escalation a terra vedrà le truppe israeliane impantanarsi e pagare un prezzo più alto del previsto come avvenuto in Libano nell’estate del 2006. Sappiamo però per certo che il prezzo pagato dalla popolazione palestinese è già altissimo e rischia di diventarlo ancora di più. Gaza ha infatti tutte le caratteristiche per essere “l’orrore della storia” con cui si comincia il nono anno del XXI° Secolo.
In tutte le guerre infatti le popolazioni civili in qualche modo hanno potuto allontanarsi dalle zone di guerra – magari precipitando in quella condizioni di profughi in cui milioni di palestinesi sono finiti dal ’48 a oggi. A Gaza questo non è possibile perché tutti i confini sono chiusi, sigillati dalle truppe e dalla marina israeliana e dall’esercito egiziano. I palestinesi di Gaza, incluse donne, bambini, anziani, sono praticamente costretti a rimanere chiusi dentro un grande “ghetto di Varsavia” dal quale non possono fuggire sottraendosi ai bombardamenti e ai combattimenti. E’ una condizione inaccettabile non solo per chi è solidale con il popolo palestinese ma per chiunque abbia un minimo senso di giustizia e di verità.
2. Non abbiamo molto tempo. Dobbiamo agire qui ed ora sugli obiettivi minimi (aprire e proteggere subito i corridoi umanitari in Egitto e in Israele per far defluire la gente, ma soprattutto fermare l’offensiva militare israeliana che ha trasformato Gaza in una carneficina), sugli obiettivi intermedi (sanzioni contro Israele, campagna di boicottaggio economico e politico, denuncia delle complicità nel nostro paese) e sull’obiettivo immediato: una grande manifestazione popolare e di massa entro gennaio che metta in campo e alla luce del sole l’opzione della solidarietà con il popolo palestinese in contrasto con il blocco monolitico di sostegno alla politica israeliana espresso in parlamento, nelle televisioni, nelle istituzioni o sui giornali. La proposta è quella di convocarla per sabato 17 gennaio (altri invocano tempi ancora più stretti, altri ancora tempi un più lunghi). Questa data al momento sembra quella più corrispondente all’urgenza e “praticabile” sia sul piano organizzativo sia sul piano del lavoro di confronto e coinvolgimento di tutte le forze disponibili alla mobilitazione.
3. Le manifestazioni che si sono svolte in molte città italiane sabato 3 gennaio hanno dimostrato che sta crescendo una grande disponibilità popolare alla mobilitazione ed una rivolta morale e politica sia contro il genocidio in corso contro i palestinesi a Gaza sia contro le consolidate complicità politiche, istituzionali e comunicative in Italia con Israele. C’è un pezzo di società che è entrata in campo con forza sabato 3 gennaio (in Italia, nel mondo e nella stessa Tel Aviv) e che ha detto chiaramente che non può più essere consentita l’impunità ad uno stato responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità come è oggi Israele.
Sabato 3 gennaio è stato dato un colpo e il sistema politico/massmediatico lo ha dovuto incassare. Non hanno potuto ignorare le manifestazioni né i loro contenuti. Allo stesso modo il dibattito politico nella sinistra e nei movimenti di solidarietà non può ignorare che il valore aggiunto nelle manifestazioni è stato portato dalle comunità islamiche, arabe e degli immigrati presenti nel nostro paese. Con questa realtà (del tutto simile a quella esistente in tutti gli altri paesi europei dove ci sono state manifestazioni) dobbiamo imparare a confrontarci sugli obiettivi, sulle iniziative, sulle modalità con grande lealtà e grande chiarezza. Alcuni commentatori sui quotidiani di oggi (domenica 4 gennaio) hanno registrato questo dato alimentando allarmi e preoccupazioni. Noi dobbiamo rovesciare completamente la logica e chiederci – al contrario - perché ci è voluto tutto questo tempo. Dovremo abituarci ad avere nelle nostre manifestazioni non solo le comunità cristiane di base ma anche quelle islamiche, non solo gli attivisti ma anche i giovani immigrati e le loro famiglie ed a costruire una forma condivisa di mobilitazione comune sugli obiettivi comuni.
4. C’è dunque urgenza di discutere e di decidere. Suggeriamo quindi di spostare evenbtualmente a domenica 18 gennaio l’assemblea nazionale del movimento contro la guerra che era già prevista per sabato 17 gennaio a Roma (una sessione dell'assemblea potrebbe essere dedicata anche alla situazione in Palestina/Medio Oriente)
La condizione necessaria per entrambe le ipotesi è che comunque ci si pronunci subito sulla necessità della manifestazione nazionale in tempi stretti in modo di convocare per sabato 10 o domenica 11 la riunione dedicata soprattutto alla soluzione dei problemi politici/organizzativi.
Vi preghiamo di esprimervi rapidamente, molto rapidamente
Un abbraccio a tutte e a tutti
Il Forum Palestina

Crimini di guerra


18:16 Onu: Avevamo segnalato la scuola

John Ging, direttore dell'agenzia dell'Onu che si occupa dei rifugiati nella Striscia di Gaza, ha detto in videoconferenza con il Palazzo di Vetro: "Avevano fornito le coordinate satellitari GPS alle autorità israeliane", che perciò sapevano che l'edificio ospitava una scuola, "chiaramente segnalata e con la bandiera dell'Onu che sventolava fuori"