La scienza avanza per eresie. L’uomo evolve attraverso il pensiero estremo, rivoluzionario. La verità non sta nel mezzo, ma in profondità, ci si arriva scavando, approfondendo. Vivere è trasgredire. La civiltà è un atto brutale contro natura. Tutto questo afferma l’uomo in rivolta. In rivolta anche con il pensiero uniformato, con l’informazione di regime, con la violenza del potere, e degli Stati che lo detengono.
La rivolta palestinese è contro l’invasione israeliana. Gli uomini di Palestina sono in rivolta, giudicano inaccettabili nuovi comandi, nuovi soprusi, nuove oppressioni. E coloro che hanno sostenuto e sostengono ancora la causa palestinese sono anch’essi uomini in rivolta. Il 21 maggio scorso alcuni di questi uomini partirono per arrivare A Gaza, per portare aiuti umanitari, per testimoniare una presenza, per incoraggiare a resistere. L’esercito israeliano li fermò, e ne uccise brutalmente alcuni, assaltando le loro imbarcazioni in acque internazionali. Fu uno dei tanti atti criminali commessi da Israele. I volti ed i nomi dei quei morti ammazzati non li scordò nessuno, semplicemente perché nessuno li vide o lesse. Solo in pochi abbiamo avuto il coraggio da subito di condannare quell’atto criminale, come da subito abbiamo sempre condannato tutti gli atti criminali commessi da Israele. Per farlo siamo andati contro, ci siamo rivoltati al sentire comune, ci siamo distinti dal gregge idiota che giustifica l’oppressore. Abbiamo fatto di più. Abbiamo scovato quei volti, li abbiamo mostrati; abbiamo trovato i nomi di quei volti, li abbiamo scritti. Quelle persone sono tornate a vivere nella memoria di chi le ha conosciute, anche solo nella fissità di una foto o nella distanza formale di un nome. Non era giustizia, perché non c’è giustizia nell’omicidio, ma una forma d’esistenza. Per coloro che muoiono nell’esercizio della loro causa, far vedere la propria morte è l’unica maniera di esistere.
Noi abbiamo ricordato quei nomi, li abbiamo fatti esistere. Un atto dovuto, ma destinato a rimanere tale. Quella che continua, che resiste all’usura del tempo, è la causa. Resiste la sua nobiltà che, in questo caso, esige una forma di giustizia. Quegli uomini morti in rivolta non ci sono più individualmente, sono confluiti senza forma all’interno della loro causa.
Per questo oggi noi possiamo parlare di una forma di giustizia, seppur limitata. Non per quegli uomini, appunto, ma per la loro causa. Oggi l’ONU ci dice che “Israele commise tortura e omicidio”, che usò “brutalità inutile e inaccettabile” e che è consentito un eventuale procedimento penale per “i crimini seguenti: omicidio intenzionale, tortura o trattamenti inumani, grandi sofferenze o ferite gravi inferte intenzionalmente”.
Non è altro che un piccolo sasso sotto l’enorme zampa del tiranno, ma va ad assommarsi agli altri sassi, e tutti insieme formano un percorso di rivolta, che forse un giorno i nostri discendenti ricorderanno con indulgenza mista a fiera riconoscenza.
“Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando.“
Albert Camus, L’uomo in rivolta