La Mini-scissione e la premura di fondersi
Sulla mini scissione dell’Ernesto non c’è molto da dire. Dal punto di vista della consistenza basta scorrere l’elenco dei sottoscrittori per coglierne l’effettiva portata, che resta molto modesta. Dal punto di vista delle motivazioni, essa risulta del tutto priva di credibilità. Pensare che oggi sia possibile ricostruire un partito comunista uscendo da Rifondazione Comunista e aderendo al Pdci risulta semplicemente ridicolo. Su questo sono d’accordo con quello che ha scritto Claudio Grassi su Liberazione, ma il mio accordo si ferma qui perché per il resto le argomentazioni contenute in quell’articolo non mi sembrano per nulla convincenti. L’errore fondamentale che viene attribuito al gruppo dell’Ernesto starebbe nel rinunciare all’unificazione fra i due partiti comunisti per percorrere la via dell’entrismo nel Pdci. Con ciò si creerebbe, fra l’altro, una fibrillazione nelle relazioni fra i due partiti e all’interno della Federazione. Una scelta improvvida, dunque.
La tesi esplicita è che, invece, bisogna porre la questione dell’unificazione dei due partiti fin dal prossimo congresso. A me pare che con questa impostazione si finisca, di fatto, nel ricadere nello schema politico da cui muove la stessa scelta dell’Ernesto. E cioè quella secondo la quale la questione fondamentale sia oggi quella dell’unificazione di Prc e Pdci, a prescindere da cosa siano effettivamente questi partiti, della loro cultura politica, delle loro posizioni e delle loro pratiche. Nel caso dell’Ernesto tutto si risolve nel richiamo a una storia comune e al ritorno all’ortodossia. La stessa scelta di aderire al Pdci sarebbe motivata alla maggior sensibilità di questo partito al tema dell’unità dei comunisti, oltrechè dalla sua coerenza. Nelle posizioni di Grassi vi è una sorta di pragmatismo organizzativista: che senso hanno più partiti comunisti?...se ci unificassimo potremmo semplificare i problemi organizzativi… potremmo essere più numerosi ...e via dicendo. Le cose non stanno assolutamente così. In primo luogo mi chiedo: se fosse vero che i due partiti sono così simili e che vi è un’evidente tensione unitaria, per quale motivo il gruppo dirigente del Pdci ha appoggiato in questi mesi l’iniziativa del gruppo dell’Ernesto? Erano del tutto sconosciute al Pdci le intenzioni scissionistiche di questo gruppo? Con che credibilità il Pdci può proporre al Prc l’unificazione e poi civettare prima e accogliere poi nelle proprie fila i promotori di una scissione dal partito fratello? Un minimo di chiarezza spetta a questo punto al gruppo dirigente del Pdci, ma anche a chi in Rifondazione comunista si fa paladino della proposta di unificazione.
Ma veniamo alle questioni di sostanza. Dalle elezioni del 2008 in poi dovrebbe ormai essere chiaro che un’opzione comunista in questo paese per ottenere consensi ha bisogno di una rilegittimazione che va costruita sulla base di una capacità di innovazione e di fortissima connessione sociale. Non solo, essa ha bisogno di caratterizzarsi per la sua diversità rispetto al degrado della politica e la tendenza allo scivolamento in un tatticismo senza principi in cui i contenuti dell’azione politica finiscono con l’essere irrilevanti. Nasce da qui l’alleantismo senza principi e il tentativo di trovare una legittimazione nel governo anziché nel consenso sociale.
Il tema che quindi va posto al centro della nostra riflessione è dunque questo: come ridare slancio oggi a un’opzione comunista, dimostrandone la sua attualità? Porre come centrale al prossimo congresso la questione dell’unificazione del Prc con il Pdci significa, invece, inevitabilmente mettere in secondo piano questa esigenza e privilegiare un approccio organizzativo. Significa dare per scontato che differenze evidenti fra Prc e Pdci, sul piano della concezione del partito, della politica internazionale, dei rapporti con i movimenti, delle relazioni con il centro sinistra, siano irrilevanti e quindi incamminarsi verso un’unificazione il cui esito più probabile sarebbe il ripiegamento sull’esaltazione dell’identità, da un lato, e sull’accentuazione di un profilo moderato, dall’altro.
Né si può far finta di non vedere quali effetti avrebbe un’operazione simile sulla neonata Federazione della sinistra. Chi scrive ha espresso in più occasioni la propria insoddisfazione per come si è proceduto alla costituzione della Federazione. Mi chiedo tuttavia: si può ragionevolmente ritenere che abbia senso una federazione costituita per il 90-95% da un solo partito? Per inciso mi chiedo anche: se la Federazione muoveva dal riconoscimento che esistevano delle differenze che impedivano la formazione di un partito unico, cosa è cambiato da allora per spingere all’unificazione delle sue maggiori forze?
Ho l’impressione che alla fine il processo a cui si pensa porti a un solo risultato: un nuovo soggetto meno credibile di quelli esistenti e, pertanto, esposto al rischio di nuove diaspore e la definitiva decomposizione di quel po’ di schieramento unitario che fino ad ora siamo riusciti a costruire. L’unica vera alternativa credibile è la ripresa di un percorso teso alla “rifondazione” del pensiero e di una pratica comunista sul quale tutti possano cimentarsi e confluire, ma senza l’ipoteca di unificazioni accelerate, e la costruzione di un polo di sinistra alternativa (altro grande tema che mi pare stia diventando sempre più urgente) sul quale far cimentare la neonata Federazione, liberandola dal paralizzante ostacolo di una gestione pattizia, priva di un’effettiva progettualità politica.
Gianluigi Pegolo
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