lunedì 17 marzo 2008

La Cina il Tibet e il Dalai Lama


Chi è, in verità, il Dalai Lama? Perché tanta parte della sinistra italiana tende ad accettarne la “santificazione” e non vederne l’essenza reazionaria?
Celebrato e trasfigurato dalla cinematografia di Hollywood, il Dalai Lama continua indubbiamente a godere di una vasta popolarità: il suo ultimo viaggio in Italia si è concluso solennemente con una foto di gruppo coi dirigenti dei partiti di centro-sinistra, che hanno voluto così testimoniare la loro stima o la loro riverenza nei confronti del campione della lotta di “liberazione del popolo tibetano”. Ma chi è realmente costui? Tanto per cominciare, egli non è nato nel Tibet storico, ma in territorio incontestabilmente cinese, per l’esattezza nella provincia di Amdo che, nel 1935, l’anno della nascita, era amministrata dal Kuomintang. In famiglia si parlava un dialetto regionale cinese, sicché il nostro eroe impara il tibetano come una lingua straniera, ed è costretto a impararla a partire dall’età di tre anni, e cioè dal momento in cui, riconosciuto come l’incarnazione del 13° Dalai Lama, viene sottratto alla sua famiglia e segregato in un convento per essere sottoposto all’influenza esclusiva dei monaci che gli insegnano a sentirsi, a pensare, a scrivere, a parlare e a comportarsi come il Dio-Re dei tibetani ovvero come Sua Santità. Desumo queste notizie da un libro (Heinrich Harrer, Sette anni nel Tibet, Mondadori, Oscar bestsellers, 1999), che pure ha un carattere di semi-ufficialità (si conclude con il “Messaggio” in cui il Dalai Lama esprime la sua gratitudine all’autore) e che ha contribuito moltissimo alla costruzione del mito hollywoodiano. Si tratta di un testo a suo modo straordinario, che riesce a trasformare in capitoli di storia sacra anche i particolari più inquietanti.


Domenico Losurdo - L'ERNESTO n.6 del 01.11.2003


Il Testo integrale su:

1 commento:

onde ha detto...

Fate bene ad aprirci gli occhi su tutto, a non strumentalizzare l'informazione rendendola univoca. Io condanno la Cina, non è questo il punto, ma condanno altresì le grida unite di "al lupo, al lupo!" del tipo: boicottiamo le Olimpiadi. Tutti contro la Cina. Al di là delle speculazioni se boicottare sia giusto e sensato o meno, non mi piace l'urlo indignato quando il lupo si è ormai mangiato metà delle pecore, con il mondo spettatore. Il lupo se le pappava già quando gliele assegnarono, le olimpiadi. E calpestava i diritti umani già da molto prima. Ora si sbandiera come condanna il risaputo primato dell'economia sui diritti dell'uomo in Cina, in un coro pressoché unanime. Ma sì, tutti contro, boicottiamo, e, finite le Olimpiadi, richiudiamo gli occhi (o meglio: chiudiamo un occhio), davanti ad una nazione in cui la modernizzazione e lo sviluppo economico non vanno di certo a braccetto con riforme normative, istituzionali, sociali ed "umane". Ai posteri l'ardua sentenza. Spero tanto di sbagliarmi!