Immaginate di venire rapiti mentre state facendo delle riprese su di un fronte particolarmente caldo come lo era il Pakistan nell'autunno del 2001. Immaginate poi di passare quasi sette anni chiusi in una gabbia senza avere la possibilità di incontrare un avvocato che vi dica di cosa siete accusati né, tanto meno, di incontrare i vostri familiari. E quando, per ottenere questi diritti, decidete di esercitare l'unica azione di protesta che vi rimane, ovvero lo sciopero della fame, ecco che vi ritrovate legati a una sedia appositamente costruita per l'alimentazione forzata, con tanto di bracciali imbottiti e di tubo che finisce direttamente in gola. Questo è quanto è accaduto a Sami al-Hajj, giornalista e cameraman sudanese che aveva la sventura di lavorare per la Cnn del mondo arabo, Al Jazeera, ed è successo più o meno nell'indifferenza di quei campioni della libertà di stampa che sono i media occidentali. Peccato perché, se avessero aderito alla campagna portata avanti da Al Jazeera e da numerosi media di lingua araba per chiedere la liberazione del giornalista, i nostri media avrebbero potuto dimostrare che non ci sono due pesi e due misure e fare qualcosa per disinnescare il risentimento che alimenta lo scontro fra civiltà.
Ieri l'incubo è finito. Sami al-Hajj è uscito dal gulag di Guantanamo ed è arrivato in volo a Karthoum su di un jet dell'Us Army: su Youtube si possono vedere i marines trasportare a braccia il giornalista giù per le scalette dell'aereo. Sette anni fa era un giovane di bell'aspetto vestito all'occidentale, ora sembra un vecchio con la barba grigia e l'abbigliamento da scuola coranica. In ospedale Sami ha potuto abbracciare il figlio che era appena nato quando è stato arrestato, arrivato insieme alla moglie e al fratello Asim che a stento è riuscito a riconoscerlo: «Sembra un uomo di ottant'anni» ha dichiarato. Fonti anonime del Dipartimento della Difesa statunitense hanno detto all'agenzia Reuters che al-Hajj «non è stato affatto rilasciato ma trasferito alle autorità sudanesi» le quali, dal canto loro, hanno invece affermato che il giornalista è un uomo libero visto che non esiste nessuna accusa a suo carico. Insieme a lui sono stati "trasferiti alle autorità" altri due cittadini sudanesi - Amir Yacoub al-Amir e Walid Ali - mentre altri 5 hanno ripreso il volo verso l'Afghanistan. Tutti - anche chi, come Sami, non può camminare - hanno viaggiato bendati, ammanettati e incatenati fino a destinazione.
L'insistenza delle autorità Usa sui "trasferimenti" è l'ultima foglia di fico rimasta per quell'aberrazione giuridica che si chiama Guantanamo, bocciata perfino dalla Corte Suprema. Non potendo giustificare in alcun modo l'arresto e la detenzione - nella base cubana così come in altre decine di prigioni segrete sparse per il mondo - bisogna andare avanti con la finzione: rilasciarli significa ammettere di avere sbagliato mentre consegnarli alle autorità di un altro paese consente di lavarsene le mani. Magari un regime "amico" potrebbe riuscire a imbastire uno straccio di processo per salvare la faccia a Washington - ma di sicuro non è il caso del Sudan. Ma perchè al-Hajj è stato sospettato di avere legami con Al Qaeda? In realtà Sami ha avuto una sola colpa: quella di trovarsi in Pakistan nel 2001, munito di regolare visto, per fare il suo lavoro di cameraman e documentare il flusso dei profughi che attraversavano la frontiera dopo l'inizio dei bombardamenti. Per questo Sami è diventato il prigioniero numero 345 nel lager di Guantanamo, e dopo anni di appelli e richieste inascoltate, il 7 gennaio del 2007 è entrato in sciopero della fame. Purtroppo, a parte i gruppi che si occupano di diritti umani come Amnesty Internazional e Human Rights Watch, sono stati in pochi a raccogliere la campagna dei media arabi e sono stati ancora meno quelli che hanno avuto il coraggio di pubblicare i disegni che Sami è riuscito a fare uscire da Guantanamo per mostrare come funzionano i dispositivi per l'alimentazione alimentazione forzata e quali sono le condizioni di detenzione. Resta il fatto che, se non fosse stato per la sua forza d'animo, forse Sami sarebbe semplicemente scomparso nel nulla.
«I topi vengono trattati con maggiore umanità» sono state le sue prime parole al rilascio. Le seconde sono andate a quei 275 detenuti «che non sono stati così fortunati». Perchè «le condizioni di detenzione dei fratelli rimasti a Guantanamo» ha dichiarato dal suo letto d'ospedale «sono terribili e peggiorano di giorno in giorno. La nostra dignità umana è stata violata e l'amministrazione americana è andata al di là di ogni valore morale o religioso. Là ci sono persone provenienti da più di 50 paesi. Persone» ha aggiunto «che non hanno nemmeno i diritti garantiti agli animali». Il direttore di Al Jazeera, Wadah Khanfar, si è detto «sopraffatto dalla gioia» ma non ha nascosto la sua preoccupazione sul comportamento dei militari americani, che hanno più volte offerto a Sami la libertà in cambio di informazioni sui suoi colleghi. «Ci preoccupa il modo in cui gli americani si sono comportati con Sami e ci preoccupa di quello che potrebbero fare in futuro». Ma se per il giornalista di un grande network è stato così difficile uscire da Guantanamo che fine faranno gli altri "nemici non combattenti"? David Remes, avvocato "a distanza" di 17 detenuti a Guantanamo Bay, punta sull'imbarazzo crescente dell'amministrazione ma non nasconde le difficoltà anche perchè «c'è un forte elemento di razzismo visto che nessun europeo sarebbe stato trattato come Sami». L'avvocato si riferisce al fatto che i primi a venire liberati sono stati proprio gli europei mentre probabilmente gli ultimi saranno gli yemeniti, ormai un terzo della popolazione in tutta arancione. Va ricordato che il gulag di Guantanamo - con le sue gabbie a cielo aperto, le stanze delle torture e le sedie per l'alimentazione forzata - non è servito a catturare nemmeno un terrorista.
Sabina Morandi su Liberazione del 03.05.2008
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