mercoledì 30 luglio 2008

Iraq: invasione per il petrolio



di Noam Chomsky

L'accordo che il ministero del petrolio iracheno sta per firmare con quattro compagnie petrolifere occidentali solleva una serie di interrogativi sulla natura dell'occupazione statunitense dell'Iraq.

Interrogativi a cui i candidati alla presidenza dovrebbero cercare di rispondere e che dovrebbero essere oggetto di un serio dibattito sia negli Stati Uniti sia nell'Iraq occupato, dove la popolazione sembra tagliata fuori dalle decisioni sul futuro del paese.

Baghdad sta negoziando con Exxon Mobil, Shell, Total e Bp – le quattro partner originarie dell'Iraq petroleum company di qualche decennio fa, a cui ora si sono aggiunte la Chevron e qualche altra piccola compagnia – per rinnovare la concessione petrolifera perduta negli anni delle nazionalizzazioni, quando i paesi produttori di petrolio ripresero il controllo delle loro risorse.

I contratti senza gara d'appalto, a quanto pare scritti dalle stesse compagnie petrolifere con l'aiuto delle autorità americane, hanno prevalso sulle offerte di altre quaranta società, tra cui alcune cinesi, indiane e russe.

"Nel mondo arabo e nell'opinione pubblica statunitense circola il sospetto che l'America abbia occupato l'Iraq per assicurarsi il petrolio garantito da questi contratti", ha scritto Andrew E. Kramer sul New York Times. La parola "sospetto" è un gentile eufemismo.

La domanda di petrolio non è mai stata così forte. Le riserve dell'Iraq sono le seconde al mondo e l'estrazione è poco costosa. Per gli strateghi americani è fondamentale che l'Iraq rimanga sotto il controllo degli Stati Uniti e che, per quanto possibile, si comporti come uno stato-cliente docile, pronto a ospitare le loro basi militari nel cuore delle maggiori riserve di greggio del mondo. Che questo fosse lo scopo principale dell'invasione è sempre stato evidente, anche se si è cercato di nasconderlo con una serie di pretesti.

Nel novembre 2007 quest'obiettivo è apparso ancora più chiaro quando il presidente George W. Bush e il premier iracheno Nouri al Maliki hanno firmato una dichiarazione di princìpi senza consultare né il congresso statunitense né il parlamento iracheno, e meno che mai le popolazioni dei due paesi.

La dichiarazione lascia aperta la possibilità di una presenza militare statunitense in Iraq a tempo indeterminato. Il documento contiene anche una richiesta sfacciata sullo sfruttamento delle risorse irachene. Nel testo si dice che l'economia irachena, cioè le sue risorse petrolifere, dovrà essere aperta agli investimenti stranieri, "in particolare a quelli statunitensi".

Praticamente è come dire che abbiamo invaso il paese per controllarlo e avere un accesso privilegiato alle sue risorse.

A sentire la propaganda di Washington, i problemi degli Stati Uniti in Iraq sono tutti dovuti all'Iran. E la soluzione proposta dal segretario di stato Condoleezza Rice è semplicissima: tutte le "forze straniere" e le "armi straniere" dovrebbero essere allontanate dall'Iraq. Tranne quelle americane naturalmente. Lo scontro sul programma nucleare iraniano alza la tensione.

La tattica della Casa Bianca per imporre un "cambiamento di regime" in Iran si basa sulla minaccia dell'uso della forza (su questo entrambi i candidati alla presidenza sono d'accordo con Bush). La maggioranza degli statunitensi è favorevole all'uso della diplomazia e contraria a quello della forza. Ma l'opinione pubblica non incide sulle scelte del governo, e non solo in questo caso.

Paradossalmente, però, l'Iraq sta diventando un condominio iraniano-statunitense. Il governo di Al Maliki rappresenta la parte della società irachena più vicina a Teheran. Il cosiddetto esercito iracheno – poco più di una milizia – è costituito essenzialmente dalla brigata Badr, che è stata addestrata in Iran e ha combattuto con gli iraniani durante la guerra tra i due paesi.

Probabilmente Teheran è ben felice di vedere che gli Stati Uniti sostengono un governo iracheno che è sotto la sua influenza. Ma per il popolo iracheno quel governo è un disastro, e forse il peggio deve ancora venire.

Sulla rivista Foreign Affairs, Steven Simons fa notare che l'attuale tattica di controinsurrezione degli Stati Uniti sta "alimentando i tre fenomeni che storicamente hanno sempre reso instabili gli stati mediorientali: il tribalismo, il predominio dei signori della guerra e il settarismo". Il risultato potrebbe essere "uno stato forte e centralizzato governato da una giunta militare che somiglierebbe" al regime di Saddam.

In questa fase i democratici americani sono stati messi a tacere dal presunto successo della strategia del generale Petraeus. Ma il loro silenzio riflette anche il fatto che non hanno obiezioni di principio alla guerra. Questi sono gli occhi con cui si guarda il mondo: se si raggiunge l'obiettivo, la guerra e l'occupazione sono giustificate. E il tanto desiderato accordo petrolifero ne è una normale conseguenza.

In realtà, questa invasione è un crimine di guerra. Ma questo è un argomento di cui non si può discutere, né durante la campagna presidenziale né mai. Perché siamo in Iraq? Qual è il nostro debito con gli iracheni per aver distrutto il loro paese? La maggioranza degli americani è favorevole al ritiro. Qualcuno ascolterà la loro voce?

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