giovedì 29 aprile 2010

Piazza Fontana: fermare l’Italia con bombe americane?


L’esplosivo della strage di piazza Fontana veniva dagli Usa e fu collocato nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura dai neofascisti di Ordine Nuovo, protetti dai servizi segreti italiani. In seguito, carabinieri di Padova (infiltrati dalla Loggia P2 di Licio Gelli?) “ripulirono” il deposito segreto di Venezia dove era stato custodito l’esplosivo americano, giunto in Italia attraverso la Germania, forse impiegato anche per la strage di piazza della Loggia a Brescia. E’ la possibile ricostruzione alla quale ha contribuito il generale Gianadelio Maletti, allora capo del Sid, l’intelligence militare italiana, ripercorrendo il drammatico scenario di quegli anni.

Maletti, trasferitosi in Sudafrica dopo la condanna per aver favorito la fuga all’estero dei neofascisti coinvolti nella strage, ha accettato di rispondere alle domande di tre giovani giornalisti – Andrea Sceresini, Nicola Palma e Maria Elena Scandaliato – che dall’intervista realizzata a Johannesburg hanno ricavato un’anteprima, pubblicata su “Il Fatto Quotidiano”, e il libro “Piazza Fontana, noi sapevamo”, edito da Aliberti. «In maniera obliqua e parziale, ma a suo modo illuminante», il generale Maletti «ricostruisce la trama della guerra segreta combattuta in Italia in quegli anni. Protagonisti, gli esecutori neofascisti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale, i loro protettori dentro gli apparati di Stato italiani, le ombre atlantiche».

In particolare, Maletti parla esplicitamente di un informatore del Sid infiltrato nel gruppo veneto di Ordine Nuovo, Gianni Casalini: nome in codice, fonte “Turco”. Il generale spiega come il Sid gli impedì di rivelare alla magistratura quello che aveva visto sugli attentati del 1969. E (fatto inedito) di come i carabinieri “bonificarono” il deposito da cui proveniva l’esplosivo americano delle stragi italiane. «Maletti risponde, racconta, non ricorda, spiega, nega, rivela». Non ha prove, dice: «Sono passati quattro decenni». Ma intanto conferma la probabile verità storica emersa dopo un’infinita saga giudiziaria: sotto la regia della P2 e di alti esponenti del governo ispirati dagli Usa, i servizi italiani incaricarono manovali neofascisti per innescare il terrorismo delle bombe: la strategia della tensione doveva fermare l’avanzata elettorale della sinistra.

«Per una legione di terroristi neri – scrive Paolo Biondani nell’introduzione al libro – è, semplicemente, “la bomba”. La prima. La più devastante. La strage per antonomasia». Per gli irriducibili della destra eversiva, resta «l’azione più riuscita». Ma anche per le contrapposte brigate dei terroristi rossi, prosegue Biondani, quello stesso eccidio di innocenti fu il detonatore (la sciagurata “giustificazione” ideologica) della lotta armata: è quando si delinea lo scenario della “strage di Stato” che l’autoproclamata avanguardia dell’ultrasinistra si arroga il diritto di sparare.

Per i familiari delle vittime, per tutti i cittadini che non dimenticano, è una ferita ancora aperta nella storia d’Italia. A cominciare dai depistaggi che portarono in carcere due anarchici, il ballerino Pietro Valpreda, ingiustamente detenuto prima di essere scagionato, e il ferroviere Giuseppe Pinelli, già combattente partigiano: anche lui innocente, Pinelli morì precipitando da una finestra della questura di Milano dopo il fermo per l’interrogatorio. A seguire, l’agguato “rosso” in cui fu ucciso il commissario Luigi Calabresi, erroneamente ritenuto responsabile della tragica morte di Pinelli.

«La strage di piazza Fontana è il nostro 11 settembre», scrive Biondani. «Il giorno della perdita collettiva dell’innocenza». La lunga stagione dell’odio politico, degli omicidi mirati e delle bombe indiscriminate comincia a Milano il 12 dicembre 1969. «Nel clima di revisionismo orwelliano che domina il paese, conviene che i più giovani sappiano poco e capiscano nulla della grande bomba, quella che inaugurò la serie nera di attentati che, dalla Calabria a Bologna, hanno insanguinato l’Italia per più di un decennio».

Quarant’anni di inchieste, processi e controinchieste – continua Biondani – hanno partorito una verità dimezzata: sentenze definitive autorizzano a scrivere che pezzi di Stato (ufficiali dei servizi segreti e dirigenti di polizia, all’ombra di ministri) hanno cancellato prove, zittito testimoni, favorito latitanti, per deviare le indagini giuste, quelle che puntavano troppo in alto. Tutto questo, contro lo Stato dei cittadini per il quale poliziotti, carabinieri e magistrati hanno lavorato duramente per cercare di arrivare alla verità: ma, per la strage che ha cambiato la nostra storia, non c’è ancora un solo condannato. «Un vuoto giudiziario, più apparente che reale, che autorizza i malintenzionati a mescolare colpevoli e innocenti, anarchici e neonazisti, segreti veri e misteri inventati in un caotico calderone nerofumo».

Qualche protagonista dei processi dimenticati, come il generale Maletti, «sicuramente custodisce altri capitoli di una più ampia verità storica, finora indicibile». Quarant’anni fa la “strage di Stato” sembrava uno slogan della sinistra. Ma oggi è proprio questa la realtà innegabile che ci regalano i fatti e i processi che hanno potuto ricostruirli: la diversità delle stragi nere, rispetto ai terrorismi che in altri paesi hanno magari seminato ancora più morti, è che in Italia c’era una parte dello Stato che combatteva contro lo Stato democratico.

Ora i magistrati della procura di Milano hanno aperto un’ultima istruttoria, ancora senza indagati, nel tentativo di scoprire altri spezzoni di verità giudiziaria. La nuova inchiesta parte dalla testimonianza, al processo per la strage di Brescia, del neofascista Gianni Casalini, che negli anni delle bombe nere fu un informatore del Sid di Maletti. Casalini ha ora confessato di aver collocato personalmente due ordigni sui treni alla stazione di Milano, nell’agosto 1969, insieme a Ivano Toniolo, un giovane pupillo del neofascista Franco Freda misteriosamente sparito dall’Italia ancor prima che cominciassero le indagini sui terroristi neri.

«Tutto questo – aggiunge Biondani – Casalini l’aveva raccontato già allora agli uomini di Maletti che, invece di informare i magistrati, ha fatto sparire tutte le carte. Ora, forse, il generale comincia a essere stanco di essere l’ufficiale di grado più alto a sopportare tutto il peso dei depistaggi di piazza Fontana. Tra tanti segreti ormai sepolti insieme ai loro custodi, solo un personaggio del suo livello potrebbe indicare le complicità superiori, le coperture internazionali. E i nomi dei mandanti che nessuna inchiesta ha ancora svelato».

L’indagine giornalistica di Sceresini, Palma e Scandaliato, realizzata grazie alla disponibilità di Maletti, è la sintesi straordinaria di un lavoro esemplare: un documento «che spiega con chiarezza le due vite della loggia filo-atlantica rappresentata da Licio Gelli, poi condannato come bancarottiere del crac Ambrosiano e depistatore della strage di Bologna». Nel quinquennio 1969-74, gli anni delle stragi, nella P2 entrano soprattutto le gerarchie militari, «riunite nel segno dell’autoritarismo e del golpismo», mentre la loggia di Gelli «finanzia segretamente i terroristi di destra».

Poi cambia lo scenario internazionale: negli Stati Uniti lo scandalo Watergate abbatte il presidente Nixon, innescando un effetto domino che in Grecia, per esempio, fa cadere il regime dei colonnelli, mentre in Italia i terroristi rossi cominciano a uccidere: ecco perché la destra eversiva non ha più bisogno di mettere le bombe per spaventare gli elettori di centro e criminalizzare l’opposizione di sinistra. Così, continua Biondani, «nel 1976 anche la P2 cambia linea. Basta eversione, ora si reclutano banchieri, imprenditori, finanzieri, politici, funzionari, giornalisti e magistrati, per un nuovo progetto sintetizzato nel cosiddetto “piano di rinascita democratica”: una specie di golpe bianco, che prevede di conquistare le istituzioni e svuotare la democrazia dall’interno, senza violenza visibile».

Per cambiare un’Italia che votava sempre più sinistra, per esempio, la ricetta era di cambiare la cultura popolare importando il modello americano della tv commerciale: parola d’ordine, «dissolvere il monopolio pubblico televisivo in nome della libertà d’antenna». Perché continuare a scavare nei segreti di piazza Fontana? Perché insistere ancora oggi a fare domande ai vecchi protagonisti della strategia della tensione? Forse perché – risponde Biondani – in Italia «hanno vinto loro».

(Il libro: Andrea Sceresini, Nicola Palma e Maria Elena Scandaliato, “Piazza Fontana, noi sapevamo”, Aliberti editore, 288 pagine, 17 euro).

lunedì 26 aprile 2010

Un maledetto muro


Il parere dei cittadini non conta, oramai questo è chiaro. Quest’amministrazione comunale non si interessa delle esigenze e dei desideri dei suoi abitanti, ma solo ed esclusivamente dei propri affari, più o meno leciti, più o meno alla luce del sole. Di questo scellerato progetto in viale Ciccolungo ho già scritto, esprimendo un parere personale ed un sentire comune, dei residenti del viale come dei cittadini fermani in generale. Ma niente, bisogna scriverne ancora, e ancora…

Il progetto riguardante la creazione d un parcheggio con 16 posti auto (ebbene sì, non è un errore, sono esattamente sédici, come la Tirannide dei Sedici) in viale Ciccolungo, oramai, dovrebbe esser noto a tutti, ma non ne sono così sicuro, come non credo che ai fermani tutti sia noto il parere dei residenti al tal riguardo. Ebbene, i residenti sono del tutto contrari al parcheggio, come sono contrari allo sbancamento ed al muro di contenimento che ne deriverebbe. Come già scrissi, l’unica esigenza sentita dagli abitanti del viale è quella di un marciapiede, mancante da sempre. Ma non è solo il “nostro” parere, è il parere di tutti coloro che hanno a cuore questa città, di tutti coloro che conosco il bilancio del Comune, disgraziatamente in rosso, di tutti coloro che osservano un maxi-parcheggio - figlio di un esproprio che ha affamato un’intera famiglia - sostanzialmente vuoto; insomma, di tutti quelli che non vorrebbero mai sostituire il verde col cemento, specialmente per realizzare un progetto insensato che non avvantaggerebbe la nostra economia ma solo gli interessi dei pochi e soliti noti. Tralascio la risibile argomentazione della riduzione dell’inquinamento in ambiente urbano, dato che il viale è a pochi metri in linea d’aria dalla Piazza del Popolo, e si sostituiscono piante con posti macchina, incentivando di fatto un ipotetico traffico.

Detto questo, parliamo di verde, di impatto ambientale e di studi geologici. Dalle carte che ho in mano si parla dell’abbattimento di tre frassini e un cipresso protetti, più un cipressus arizona, undici oleandri, un ligustro, un olivo, un barberis e una tuglia non protetti. Il muro di contenimento risulta essere di 1,20 metri, un maledetto muro che avremo noi nella testa, e davanti casa, parafrasando Fossati. Lo sbancamento previsto è di circa quattro metri per una lunghezza di un’ottantina, innaturalmente al posto del verde. Sempre dalle carte in mio possesso non risulterebbero studi geologici, geognostici e geofisici, questo in una zona franosa ed instabile, ove le strade ed i palazzi si muovono ed abbisognano di continui controlli - spesso disattesi -, è imbarazzante, oltre che assurdo.

Insomma, fermani, protestate, fatevi sentire, sbraitate, incatenatevi, onorate il vostro essere cittadini, rianimate la vostra coscienza civica, ricominciate a provare il gusto per l’indignazione, che è il sale della politica, la spinta per non vedere calpestati i propri diritti, e le proprie verdi scarpate.

Simone Tizi, un sempre più indignato residente di viale Ciccolungo - un viale residenziale.

venerdì 23 aprile 2010

Un monito all'antipolitica


Fa piacere sapere, scoprire
che i propri pensieri
sono stati già pensati
da personaggi assoluti.
Quando in questi ultimi mesi
dicevo che abbiamo sbagliato tutti
me compreso
a disinteressarci per molto tempo della politica attiva
lasciandola così, negli anni, nelle mani dei farabutti
ecco che spunta una frase
nel mezzo di un moderno mezzo di comunicazione
che ti fa capire come noi
siamo il risultato di tutto ciò che è già esistito, che ci ha preceduto, anche non volendo.
Sono gli antichi coi loro pensieri
che riecheggiano nella nostra memoria ancestrale, e collettiva.
Un monito all'antipolitica e alla generazione passiva:

"Una delle punizioni che ti spettano per non aver partecipato alla politica, è di essere governato da esseri inferiori." Platone

martedì 20 aprile 2010

Faccio il tifo per il vulcano



Io faccio il tifo per il vulcano islandese Eyjafjallajökull . È bene che ogni tanto la natura, indifferente, imparziale e moralmente amorale, ricordi all’uomo, che nella sua demenziale ubris, sta diventando la bestia più stupida del Creato, non è il padrone del mondo. Il vulcano islandese esplose già, con la stessa violenza, due secoli fa ma nessuno se ne accorse tranne i pochi abitanti di quelle terre lontane, mentre oggi sta mandando in tilt l’intero pianeta. Due secoli fa gli aeroplani non esistevano. Ma non è solo una questione puramente tecnologica. Già nel primo secolo a. C. il filosofo greco Posidonio sapeva che qualsiasi accadimento in qualsiasi parte dell’universo influisce su qualche altra cosa nell’universo. Quella che era un’intuizione concettuale noi moderni l’abbiamo fatta diventare una realtà concreta. Abbiamo creato un sistema talmente complesso, integrato e universale che qualsiasi fatto negativo in qualsiasi parte del mondo lo inceppa. E questo vale non solo per gli accadimenti imparziali della natura ma anche, e forse soprattutto, per quanto noi stessi facciamo. La Grecia è in crisi? Solo una cinquantina di anni fa la cosa avrebbe riguardato solo i greci e, dato che non sono quelli antichi, ma quelli di oggi, stupidi come tutti gli uomini di oggi, avremmo potuto fregarcene. Invece se crolla la Grecia crolla economicamente l’Unione europea e, di lì a poco, l’economia mondiale, almeno quella del mondo industrializzato e di quello che, a calci in culo e magari con l’aiuto di qualche "bomba blu", stiamo spingendo a forza sulla "via dello Sviluppo".

Siamo stati così cretini, e avidi, noi occidentali, la "cultura superiore", da voler piegare il mondo intero, o quasi, a un unico modello per cui se per caso, per fatto di natura o altro, questo si inceppa o si dimostra sbagliato non abbiamo vie di fuga. Qualsiasi macchina, appena un po’ sofisticata, ha almeno due motori, se se ne rompe uno si va con l’altro. Noi abbiamo un solo motore, abbiamo omologato il pianeta a un’unica dimensione, ad un unico sistema, ad un unico modello. Che è sbagliato in re ipsa perché si basa sulle crescite esponenziali, che esistono in matematica, non in natura. Verrà il giorno, non più tanto lontano, in cui questo sistema imploderà su se stesso. Basterà che uno spillo cada in Giappone. Si salveranno solo quei pochi popoli che ne sono rimasti fuori. Gli indigeni delle isole Andemane che, pur essendo i più vicini, dopo Sumatra, all’epicentro dello tsunami, non hanno avuto né un morto né un ferito. Perché non hanno mai accettato di contaminarsi con lo “sviluppo” e invece di affidarsi a ottusi strumenti tecnologici sanno ancora guardare il mare con occhio umano, ascoltarlo con orecchie umane, sentirlo con cuore umano. Forza Eyjafjallajökull.

Massimo Fini
da il Fatto Quotidiano del 20 aprile

giovedì 15 aprile 2010

Per Emergency


Quello di Emergency è il più importante gioco di verità sul fronte della sedicente “Guerra al terrore”. Il “semplice” racconto, giorno per giorno, degli effetti della guerra sui corpi e sulla vita è ciò che più mette in crisi l’informazione, oggi mera trasmissione di parole d’ordine. Il racconto di Emergency fa collassare ogni parola d’ordine, ogni giustificazione, ogni razionalizzazione di comodo sulla guerra. Ascoltandolo, scompare tutta la prosopopea della finta realpolitik. Il racconto giorno per giorno ci mostra quali sono le conseguenze; ci mostra che esiste un’altra possibilità, perché tra maciullare le gambe di un bimbo e lasciarlo correre libero, c’è sempre una scelta; ci fa sentire cose che normalmente sappiamo ma non sentiamo sulla nostra condizione, cioè sul nostro essere bersagli di propaganda. Al racconto dello scontro tra guerra e vita, i poteri costituiti rispondono in modo violento, e in questo modo entrano nel gioco di verità, confermano che il vero fronte della vera guerra è quello che vede la vita (la vita vera, non il suo feticcio) resistere ogni giorno contro i poteri che vogliono annientarla.

Da Giap del collettivo di scrittori Wu Ming