domenica 27 febbraio 2011

martedì 15 febbraio 2011

Le ali della libertà


Mi chiamo Giordano Scipioni ed ho quarant’anni. Non ho mai conosciuto mio padre ed ho perso mia madre nel 1999, ritrovandomi, a ventotto anni, senza lavoro e senza risorse. I servizi sociali del Comune mi assegnarono, allora, un alloggio in via Langlois, non essendo più in grado di fare fronte alle spese dell’affitto di un appartamento nel quartiere di Santa Petronilla, dove vivevo con mia madre. Ai Servizi Sociali del Comune non ho mai avanzato richieste di tipo assistenziale. Chiedevo soltanto un lavoro e la possibilità di vivere una vita dignitosa. Grazie al mio amico Quinto Antinori, scomparso alcuni anni addietro, sono riuscito ad avere, attraverso la cooperativa Idor che gestisce la Piscina Comunale, un piccolo lavoro come addetto alle pulizie. Questo mi consente di essere indipendente e non dover ricorrere, in alcun modo, ai Servizi Sociali.

Nel 2005, dopo essere stato assente da Fermo per un periodo, in cui ho avuto la possibilità di svolgere l’attività di stalliere presso una tenuta di San Severino Marche, al ritorno, mi sono ritrovato spaesato e fuori luogo. Passeggiavo dalla mattina alla sera. Nel camminare mi imbattevo spesso in piccioni che cadevano dal nido, molti dei quali ancora incapaci di volare, altri feriti che ho cominciato ad accudire, come meglio potevo, nella mia abitazione. Quelli che morivano li seppellivo, quelli che sopravvivevano li tenevo con me. Tra i piccioni c’erano maschi e femmine che nel tempo si sono riprodotti e non ho mai avuto il coraggio di liberarmene. Mi ero troppo affezionato loro. Nell’arco di sei anni sono diventati numerosi. Ero consapevole allora e lo sono ancor più oggi, che i piccioni non possono essere tenuti in casa per motivi igienico sanitari, specialmente in città. Tuttavia non credo di aver fatto una cosa cattiva e, comunque, le mie intenzioni erano buone.

Una mattina alle 8, del 12 novembre 2010, sento bussare alla porta violentemente. Ho pensato in un primo momento a un incidente, qualcuno a cui fosse stata ammaccata la macchina. Apro la porta e trovo due vigili con guanti e mascherine, uno alla mia destra e uno alla mia sinistra, in mezzo il capo dei vigili. Il capo dei vigili mi chiede di seguirlo per portarmi su una nuova casa. Nonostante fossi ancora assopito ho capito che si trattava di qualcosa che non andava e, spaventato, ho allungato le braccia per prendere il mio giubbotto. Uno dei vigili mi afferra per il braccio destro e l’altro per il sinistro per portarmi fuori di casa. Il loro atteggiamento è palesemente provocatorio. Probabilmente speravano in una mia reazione che non c’è stata. Infatti ho solo subito l’aggressione esprimendo le mie rimostranze verbalmente, dicendo di essere lasciato libero nei movimenti, di non essere trattenuto. Subito dopo è arrivata una dottoressa, credo del Servizio Psichiatrico, che mi ha parlato dei piccioni (che il maschio e la femmina rimangono insieme tutta la vita, ecc). La dottoressa mi ha definito egoista per il fatto che tenevo i piccioni dentro casa e questo mi ha reso nervoso e mi ha spinto a reagire ma sempre e solo verbalmente. I vigili mi hanno messo nuovamente le mani addosso e ho gridato che mi stavano trattando in quel modo perché sono un poveraccio e che se fossi stato un Diego Della Valle o un Berlusconi si sarebbero comportati in modo ben diverso. Sia i Vigili che la dottoressa si sono messi a ridere con un atteggiamento di scherno e di disprezzo. I vigili a spintoni mi hanno costretto a salire sull’ambulanza e a sdraiarmi sul lettino. Anche allora non ho opposto alcuna resistenza.

Pensavo che se non avessi fatto resistenza, all’Ospedale mi avrebbero rilasciato subito. Invece mi hanno tenuto prigioniero per dieci giorni presso il reparto psichiatrico. Ho giurato a me stesso che avrei rotto definitivamente ogni rapporto sia con i medici che con il Servizio Sociale. Successivamente sono venuto a conoscenza del fatto che a firmare il mio ricovero è stato il Sindaco. Questa cosa non gli fa onore.

Quello che mi ha colpito molto è che quando sono rientrato nella casa di via Langlois per recuperare le mie cose, costretto, peraltro, a passare dalla finestra, non ho ritrovato più nulla: lo stereo, il decoder, il lettore portatile, un piccolo televisore a cristalli liquidi ancora imballato e nuovo di zecca, il rasoio elettrico che era un ricordo di mia madre, un orologio d’argento Casio regalo di un mio amico, un vestito nuovo che ho indossato una sola volta al matrimonio di un’amica, un anello di mia madre, un cannocchiale astronomico di piccole dimensioni, i libri di astrologia e di storia ecc. ecc. Tutto sparito. Hanno gettato tutto per motivi igienico sanitari (compreso il televisore nuovo e ancora imballato) ? Mi sono ritrovato, inoltre, di fronte a uno spettacolo macabro. Infatti mentre tutte le mie cose erano scomparse, ho trovato, nella stanza dove li accudivo, diversi piccioni morti e sporchi di sangue. Non ho potuto fare a meno di piangere.

I giornali locali mi hanno dipinto come un mostro. E’ troppo facile giudicare qualcuno che non si conosce. Ora mi auguro che almeno venga pubblicata questa mia lettera aperta così come è scritta, parola per parola. Faccio appello alla libertà di stampa e alla professionalità dei giornalisti locali, confidando nella possibilità di esprimere le mie ragioni.

Al Comune e alla Sanità non chiedo niente, anche perché ogni qual volta sono intervenuti lo hanno fatto esclusivamente per violare i miei diritti e per limitare la mia libertà. Da quando mi è successa questa cosa non mi sento più lo stesso. Tutte le mattine quando vedo le lancette dell’orologio che segnano le otto mi sembra di rivivere quell’esperienza violenta. Mi sento come un cittadino che è stato arrestato, processato e messo in carcere senza che abbia commesso alcun reato. E anche se ora sono libero la mia vita non è più la stessa e non lo sarà più.

Alla società e alle autorità competenti non chiedo compassione ma giustizia.

Giordano Scipioni

lunedì 14 febbraio 2011

L’apologia dell’ignoranza


Non credo che il sig. Enrico Bracalente si riferisca al problema dell’acculturazione - sollevato da Pasolini negli anni settanta - quando, dal suo pulpito, si erge tuonando contro l’opportunità di farsi un’istruzione, dato che, a sua detta, si potrebbe benissimo lavorare e guadagnare con la sola terza media - il suo titolo di studio che va sbandierando a destra e manca nelle scuole fermane, da ultimo anche durante l’assegnazione del premio Ape d’oro. Non credo. Anche perché in questo caso specifico non ho avvertito una critica ad un popolo che accetta, in massa, di elevarsi culturalmente di una cultura unica, precostituita e borghese. Forse, il sig. Bracalente, pensava alla succosa opportunità di poter contare ancora, di nuovo, su uomini che ignorano di essere sfruttati, uomini che si accontenterebbero di un pezzo di pane ottenuto a scapito dei propri diritti, che un giorno arriveranno ad ignorare, scordare, dimenticare. Esplicitamente: Hai bisogno di campare? Bene, allora accetta di lavorare in barba ai diritti acquisiti con anni di lotte, accetta di lavorare rimanendo ignorante, controllabile a dosi massicce di televisione di regime, il tuo unico svago imposto da consumatore di merci. Ecco, si immagina il ritorno dei lavoratori all’interno della caverna del mito platonico.

Dalla mia bocca non ascolterete mai l’elogio della cultura borghese - cito spesso il filosofo Guy Debord, tenutosi fermamente dottore in niente - ma andare nelle scuole pubbliche a fare l’apologia dell’ignoranza è, sinceramente, inaccettabile, oltre che indecente. Tranquillizzante poi sapere che questo signore sia il riferimento imprenditoriale di quest’amministrazione comunale, della quale speriamo di liberarci il più presto possibile, per il bene di tutti.

Simone Tizi, Segretario del Circolo di Fermo del PRC

venerdì 11 febbraio 2011

Dio danaro

giovedì 10 febbraio 2011

Da che parte stanno?


La Mini-scissione e la premura di fondersi

Sulla mini scissione dell’Ernesto non c’è molto da dire. Dal punto di vista della consistenza basta scorrere l’elenco dei sottoscrittori per coglierne l’effettiva portata, che resta molto modesta. Dal punto di vista delle motivazioni, essa risulta del tutto priva di credibilità. Pensare che oggi sia possibile ricostruire un partito comunista uscendo da Rifondazione Comunista e aderendo al Pdci risulta semplicemente ridicolo. Su questo sono d’accordo con quello che ha scritto Claudio Grassi su Liberazione, ma il mio accordo si ferma qui perché per il resto le argomentazioni contenute in quell’articolo non mi sembrano per nulla convincenti. L’errore fondamentale che viene attribuito al gruppo dell’Ernesto starebbe nel rinunciare all’unificazione fra i due partiti comunisti per percorrere la via dell’entrismo nel Pdci. Con ciò si creerebbe, fra l’altro, una fibrillazione nelle relazioni fra i due partiti e all’interno della Federazione. Una scelta improvvida, dunque.
La tesi esplicita è che, invece, bisogna porre la questione dell’unificazione dei due partiti fin dal prossimo congresso. A me pare che con questa impostazione si finisca, di fatto, nel ricadere nello schema politico da cui muove la stessa scelta dell’Ernesto. E cioè quella secondo la quale la questione fondamentale sia oggi quella dell’unificazione di Prc e Pdci, a prescindere da cosa siano effettivamente questi partiti, della loro cultura politica, delle loro posizioni e delle loro pratiche. Nel caso dell’Ernesto tutto si risolve nel richiamo a una storia comune e al ritorno all’ortodossia. La stessa scelta di aderire al Pdci sarebbe motivata alla maggior sensibilità di questo partito al tema dell’unità dei comunisti, oltrechè dalla sua coerenza. Nelle posizioni di Grassi vi è una sorta di pragmatismo organizzativista: che senso hanno più partiti comunisti?...se ci unificassimo potremmo semplificare i problemi organizzativi… potremmo essere più numerosi ...e via dicendo. Le cose non stanno assolutamente così. In primo luogo mi chiedo: se fosse vero che i due partiti sono così simili e che vi è un’evidente tensione unitaria, per quale motivo il gruppo dirigente del Pdci ha appoggiato in questi mesi l’iniziativa del gruppo dell’Ernesto? Erano del tutto sconosciute al Pdci le intenzioni scissionistiche di questo gruppo? Con che credibilità il Pdci può proporre al Prc l’unificazione e poi civettare prima e accogliere poi nelle proprie fila i promotori di una scissione dal partito fratello? Un minimo di chiarezza spetta a questo punto al gruppo dirigente del Pdci, ma anche a chi in Rifondazione comunista si fa paladino della proposta di unificazione.
Ma veniamo alle questioni di sostanza. Dalle elezioni del 2008 in poi dovrebbe ormai essere chiaro che un’opzione comunista in questo paese per ottenere consensi ha bisogno di una rilegittimazione che va costruita sulla base di una capacità di innovazione e di fortissima connessione sociale. Non solo, essa ha bisogno di caratterizzarsi per la sua diversità rispetto al degrado della politica e la tendenza allo scivolamento in un tatticismo senza principi in cui i contenuti dell’azione politica finiscono con l’essere irrilevanti. Nasce da qui l’alleantismo senza principi e il tentativo di trovare una legittimazione nel governo anziché nel consenso sociale.
Il tema che quindi va posto al centro della nostra riflessione è dunque questo: come ridare slancio oggi a un’opzione comunista, dimostrandone la sua attualità? Porre come centrale al prossimo congresso la questione dell’unificazione del Prc con il Pdci significa, invece, inevitabilmente mettere in secondo piano questa esigenza e privilegiare un approccio organizzativo. Significa dare per scontato che differenze evidenti fra Prc e Pdci, sul piano della concezione del partito, della politica internazionale, dei rapporti con i movimenti, delle relazioni con il centro sinistra, siano irrilevanti e quindi incamminarsi verso un’unificazione il cui esito più probabile sarebbe il ripiegamento sull’esaltazione dell’identità, da un lato, e sull’accentuazione di un profilo moderato, dall’altro.
Né si può far finta di non vedere quali effetti avrebbe un’operazione simile sulla neonata Federazione della sinistra. Chi scrive ha espresso in più occasioni la propria insoddisfazione per come si è proceduto alla costituzione della Federazione. Mi chiedo tuttavia: si può ragionevolmente ritenere che abbia senso una federazione costituita per il 90-95% da un solo partito? Per inciso mi chiedo anche: se la Federazione muoveva dal riconoscimento che esistevano delle differenze che impedivano la formazione di un partito unico, cosa è cambiato da allora per spingere all’unificazione delle sue maggiori forze?
Ho l’impressione che alla fine il processo a cui si pensa porti a un solo risultato: un nuovo soggetto meno credibile di quelli esistenti e, pertanto, esposto al rischio di nuove diaspore e la definitiva decomposizione di quel po’ di schieramento unitario che fino ad ora siamo riusciti a costruire. L’unica vera alternativa credibile è la ripresa di un percorso teso alla “rifondazione” del pensiero e di una pratica comunista sul quale tutti possano cimentarsi e confluire, ma senza l’ipoteca di unificazioni accelerate, e la costruzione di un polo di sinistra alternativa (altro grande tema che mi pare stia diventando sempre più urgente) sul quale far cimentare la neonata Federazione, liberandola dal paralizzante ostacolo di una gestione pattizia, priva di un’effettiva progettualità politica.

Gianluigi Pegolo

in data:09/02/2011

Forse un giorno ci perderò del tempo a scriverne, di questa sudicia cosa. Per ora mi limito a ribadire che quest'attrazione è dettata da nostalgie di totalitarismo politico, e, senza vantarmene più di tanto, avevo previsto tutto, l'ho pure provocatoriamente sbattutto in faccia ad uno dei firmatari.

mercoledì 9 febbraio 2011

Un appello sbagliato


Domenica 6 febbraio il manifesto ha ospitato in una pagina a pagamento un appello dal titolo “Ricostruire il Partito Comunista”. In calce all’appello sono state raccolte mille firme. Scorrendo i nomi risulta chiaro che l’iniziativa politica è promossa dai compagni e dalle compagne del Prc che si riconoscono nella rivista de l’ernesto. L’iniziativa, nei suoi contenuti, non è nuova. Circa due anni fa vi fu un tentativo analogo (“Comunisti Uniti”) che raccolse un numero più vasto di firme, ma, come è noto, il tentativo naufragò poiché sorsero divisioni tra chi aveva sottoscritto l’appello stesso.
Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, un progetto di costruzione di un partito che si basa sulla parola d’ordine dell’unità dei comunisti non ha alcun senso. Tra le varie formazioni e micro-formazioni comuniste italiane vi sono tante e tali differenze di progetto politico e di riferimenti culturali che risulta impensabile metterle assieme.
In effetti l’appello che è uscito domenica non propone più l’unità dei comunisti, ma, di fatto, la confluenza nel Pdci.

Si tratta di un errore politico grave che non aiuta quello che, invece, a mio parere, è diventato un obiettivo non solo giusto, ma praticabile: la riunificazione del Prc col Pdci nell’ambito del progetto di costruzione della Federazione della Sinistra e, più in generale dell’unità a sinistra.
L’appello infatti rinuncia all’obiettivo di unificare i due partiti poiché ne individua uno come più comunista (il Pdci) e ne scarta un altro poiché i firmatari “non ne riconoscono più il fattore propulsivo per la ricostruzione del partito comunista in Italia” ( il Prc). L’esito di questa impresa, qualora andasse avanti, sarebbe a mio giudizio disastroso. Per due motivi.
In primo luogo un progetto unitario dei comunisti che inizia senza il coinvolgimento del partito comunista più grande, anzi organizzando una scissione in esso, non ha alcuna credibilità. E’ vero che in tutti questi anni le scissioni sono state fatte in nome dell’unità! Ma si sono visti anche i risultati! Sarebbe ora di smetterla. La credibilità agli occhi di quei referenti di cui nell’appello si parla – in particolare le lavoratrici e i lavoratori – sarebbe pari a zero! La prima cosa che direbbero sarebbe questa: “già siete ridotti ai minimi termini! Un’altra divisione? Tornate il prossimo giro”.
In secondo luogo non si capisce proprio il senso politico di questa operazione. A oltre 12 anni dalla scissione del Pdci, mai come in questa fase i due partiti si sono riavvicinati e mai come in questa fase è diventato realistico, al punto di essere concretamente realizzabile, la loro riunificazione. Che senso ha oggi, alla vigilia di due congressi – quello del Prc e quello del Pdci (entrambi si terranno nel 2011) che discuteranno anche questo tema della riunificazione - proporre una mini-scissione dal Prc al Pdci? L’esito non può essere che alimentare diffidenza e ostacolare il progetto unitario.
Infine anche il progetto della Federazione della Sinistra ne risulterebbe indebolito. Che credibilità ha un processo federativo nel quale tra i due soggetti principali si organizzano scissioni?
Per queste ragioni penso che l’appello sia sbagliato e che non vada sostenuto.
Per quanto ci riguarda occorre proseguire con ancora maggiore determinazione sugli obiettivi che ci siamo dati.
La costruzione della Federazione della Sinistra, come primo passo verso la riunificazione della sinistra di alternativa in un soggetto politico. Dopo anni di divisioni o riusciamo in questa impresa o non saremo credibili nei confronti di quei movimenti (16 ottobre, scuola, acqua bene comune) che hanno tenuto aperta una speranza di cambiamento.
Dentro al percorso federativo, che dobbiamo tenere sempre aperto anche ad altre forze di sinistra, qualora queste si rendessero disponibili, vanno riunificati - come ho detto al congresso della Federazione della Sinistra – i due partiti comunisti. Non ha più alcun senso che restino divisi, visto che oltre a presentarsi assieme alle elezioni, concordano su tutte le principali iniziative.
Questi sono gli obiettivi che ci farebbero fare passi in avanti. Sono alla nostra portata. Le scissioni tra i comunisti, come si è visto in tutti questi anni hanno prodotto un solo risultato: indebolire i comunisti stessi.

Mi sento in completo accordo con Grassi, in questo caso. Si tratta di un errore politico grave dettato da persone miopi e senza idee. Mestamente muoino menti ammuffite non in grado di guardare al futuro, ancorate al passato che non è più, non avendo gli strumenti per rifondare l'ipotesi comunista.

Comunismo


"Alla fine di questa giornata, quando saremo ancora qui, oltre 17 mila bambini saranno morti di fame. Ne scompare uno ogni 5 secondi. Sei milioni in un anno". Ha scelto parole raggelanti il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, per cominciare Vertice mondiale sulla sicurezza alimentare della Fao, che s'è aperto a Roma.

Non sapete più cosa dire alla gente che incontrate? Pensate che non sia comprensibile per loro oggi il comunismo? Beh, allora ditegli che per far arrivare comunque a fine mese le loro famiglie sotto un tetto e con l'acqua potabile dobbiamo sacrificare sei milioni di bambini l'anno, bambini non occidentali. E dite loro che questo accade per il modello economico vigente, il capitalismo, che professa l'arricchimento illimitato dei singoli e la lotta dell'uomo contro l'uomo, rendendo ogni persona prezzabile, quindi comprabile. E solo il comunismo persegue equità e redistribuzione, non lasciando indietro nessuno. Umanizza le condizioni di vita e permette di non concepire un mondo con maggioranze di poveri affamati comandate da sparute minoranze di ricchi e potenti.

Riscopritene l'etimo: sistema sociale per cui i beni di questo mondo dovrebbero essere goduti in COMUNE da tutti.