martedì 29 giugno 2010

Avevamo ragione a chiamarli mafiosi


Mafia, Dell'Utri condannato a 7 anni

La sentenza all'aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo dopo cinque giorni di camera di consiglio

Questo il verdetto della corte d'appello presieduta da Claudio Dall'Acqua (a latere Salvatore Barresi e Sergio La Commare). In primo grado il senatore del Pdl era stato condannato a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Sette anni di carcere per Marcello Dell'Utri. Ma il senatore dl Pdl è assolto "per le vicende successive al 1992 perché il fatto non sussiste". Dopo cinque giorni di camera di consiglio, i giudici della corte d'appello di Palermo riscrivono la condanna inflitta al senatore Marcello Dell'Utri in primo grado. Ma riscrivono una parte del processo, quello che riguarda i presunti rapporti tra Dell'Utri e Cosa nostra alla vigilia della nascita di Forza Italia.

Avevamo ragione a chiamarli mafiosi, quando quel tumultuoso giorno di due anni addietro umiliarono Fermo e la sua storia antifascista invitando Marcello Dell'Utri a parlarci dei falsi Diari di Mussolini. Avevamo ragione da vendere a chiamarli così, piduisti e mafiosi, ed avevamo ragione ad essere profondamente indignati.

Noi sapevamo, perché non era difficile capire, come ancora oggi non è difficile capire che le destre italiane sono un'accozzaglia di neofascisti mafiosi e piduisti. Forze eversive che hanno organizzato insieme alle mafie gli attentati più sangunari e le stragi più efferate degli ultimi decenni in questo Paese.

Noi sapevamo, ed avevamo ragione. Oggi sappiamo, ed abbiamo ancora ragione.

lunedì 28 giugno 2010

Da Genova a Pomigliano, o ti racconti o sei raccontato


Vale per Genova a cinquant'anni dai fatti del 30 giugno. Vale per Pomigliano oggi. «Perché Pomigliano è ovunque ma c'è una sostanza che ha difficoltà a prendere forma», spiega Ferrero a Liberazione . «Raccontare la ribellione è utile per nuove battaglie». Perché la storia è uno dei terreni della battaglia politica, «e se non si affronta questo terreno anche i morti non saranno al sicuro». Piero Aquilino, metalmeccanico della Fiom alla Fincantieri, cita Walter Benjamin che s'è ammazzato per non cadere nelle mani naziste. E rivela che il suo amministratore delegato, «uno dei ragazzi dello zoo di Bettino», un craxiano della Milano da bere, abbia già chiesto alla Cisl un accordo «come a Pomigliano». E' vero, questa storia serve a parlare di adesso. Ferrero ricorda Orwell: «Chi controlla il passato, controlla il futuro». Nel 1960, all'Italsider di Cornigliano, a ovest di Genova, 980 operai su mille avevano la tessera della Cisl in saccoccia. «Il primo ricatto era quello di costringerti a stracciare la tessera del Pci o della Cgil, arrivavi all'ufficio personale che già c'era una scheda preparata dai carabinieri», dice Giordano Bruschi, 85 anni e una memoria che funziona come un motore di ricerca. Però la storia ufficiale, quando ripensa al boom economico, impone una leggenda metropolitana di un paese pacificato e reso prospero dalla Dc e dal padronato. Sembra ieri. Anzi sembra oggi. «Per questo la memoria di certe lotte fa scandalo», riprende Aquilino parlando nella piazzetta incastonata tra il Bisagno e Marassi di fronte allo storico circolo del Prc, tutti lo chiamano al femminile, "la Bianchini". E' da qui che Rifondazione avvia un percorso di iniziative per raccontare i moti popolari che attraversarono l'Italia tra il 30 giugno e il 10 luglio del '60. Da Genova, ieri, fino a Reggio Emilia fra dieci giorni, passando per Palermo e poi anche a Roma: "La Resistenza continua", recita il manifesto che promuove con il disegno di una maglietta a striscie, il simbolo di una generazione che riuscì a scuotere il sindacato, a saldarsi con quella che l'aveva preceduta. Una generazione travolta dall'ondata di revisionismo storico che prova a cancellare il fatto che la democrazia sia una conquista non una concessione. E su questo vuoto di memoria affondano sia le radici dei ricatti padronali che l'indifferenza con cui la gente della Valbisagno, proprio mentre si svolge il convegno, apprende dai vigili che a poche centinaia di metri, dall'altra parte del fiume, 36 ragazzotti di Forza nuova protetti da tre poliziotti ciascuno, tenessero un comizio. Bruno Rossi, portuale ventenne di allora, spiega dal palco della Bianchini ai ragazzi dei centri sociali - che poco prima hanno ribaltato dei cassonetti per contestare i forzanovisti - quanto sia necessario «convincere gli altri, non ci siamo riusciti in pieno nemmeno nel 2001».
Nonostante il solido apparato scientifico - la memoria di Bruschi e l'autore di un libro nuovissimo su quei giorni, Riccardo Navone - l'appuntamento è quanto di meno rituale e richiama continuamente il corteo che da Piazza della Vittoria tornerà il 30 a Piazza De Ferrari.
117 giorni di governo Tambroni lasciarono 12 lavoratori morti nelle strade per mano di poliziotti o di sicari mafiosi, servirono a togliere una tassa ai grandi allevatori, a concedere 12 milioni di pubblicità parastatale al giornale del Msi e a provare l'equiparazione dei repubblichini ai militari di carriera. Eppure il 30 giugno «fu la scossa», ricorda Giuliano Giuliani, ieri tra il pubblico, allora redattore al Calendario del popolo: «Chiesi la tessera del Pci». I salari erano inchiodati ma le borse volavano. L'anno prima, come altre città portuali di tutto il mondo, anche Genova era stata teatro di 40 giorni di sciopero vittorioso. La repressione era stata costante e durissima in tutto il Paese per tutti i mesi precendenti. L'annuncio che il Msi avrebbe tenuto il suo congresso nell'unica città in cui i nazi, dopo un'interminabile biennio di eccidi, s'erano arresi ai partigiani, incendiò la prateria. Anche perché l'avrebbe voluto presiedere Carlo Emanuele Basile, colui che fucilò il tramviere Romeo Guglielmetti per la cui liberazione, il 27 novembre del '43, scoppiò il primo sciopero genovese. E i giovani, che tutti immaginavano come dei teddy-boys cerebrolesi scesero in piazza riconoscendo come unica autorità quella dei partigiani. Quel giorno Adriano Agostino, non aveva la maglietta a striscie ma il vestito buono ché era portiere d'albergo. Tornando a casa s'unì a un gruppo di compagni che preparava i mattoni della grandezza giusta per gli scontri. «E addio al vestito buono». Genova prova a ricordare, mercoledì scenderà in piazza anche se la sconfitta della sinistra pesa su tutti: «Per uscirne - conclude Ferrero - bisogna capirne le ragioni e ricostruire la possibilità di un'alternativa, non ci sono solo quelle prospettate da Marchionne. E avallate da Veltroni».

1960 - 2010 Genova, Catania, Licata, Palermo, Reggio Emilia.
Sangue del nostro sangue, Nervi dei nostri nervi

30 giugno 1960

L'MSI, in cerca di legittimazione, organizza il suo congresso nazionale a Genova, città Medaglia d'Oro della resistenza. La popolazione si ribella e scende in piazza a migliaia. Protagonisti sono i portuali, che partecipano agli scontri più duri, i partigiani che prendono le decisioni tattiche, "i ragazzi con le magliette a righe", i più giovani, che per la prima volta si affacciano sulla scena politica. Accanto a loro gli operai di Ponente, gli intellettuali, le donne. Ci saranno scontri durissimi con le forze dell'ordine, morti e feriti.
Il presidente del consiglio, Tambroni, sarà costretto a dimettersi e il governo cadrà. Ma prima di cadere ci saranno altre durissime manifestazione che l'Anpi e la CGIL organizzeranno in tutta Italia. Manifestazioni sulle quali la polizia sparerà senza ritegno uccidendo molti operai, giovani, comunisti.


5 luglio 1960
A Licata, una manifestazione popolare contro il carovita e la mancanza di lavoro è caricata selvaggiamente dalla polizia. Rimane ucciso Vincenzo Napoli, mentre cercava di difendere un bambino tenuto fermo ad un muro e picchiato dai celerini.

7 luglio 1960
A Reggio Emilia, la polizia interviene contro una massa di cittadini che segue, all’esterno del teatro dove si svolge, un comizio contro il governo Tambroni. Per disperdere la folla di circa 20.000 cittadini, oltre ai caroselli con le jeep la polizia apre il fuoco uccidendo Lauro Farioli, Ovidio Franchi, Marino Serri, Emilio Reverberi e Afro Tondelli. 21 risultano i feriti. Viene arrestato, dopo la strage perpetrata dalla polizia, Alberto Bedini. Gli agenti inquisiti saranno assolti definitivamente nel luglio 1960.

8 luglio 1960
A Palermo, il centro è presidiato fin dalle prime ore del mattino dalla Celere per disturbare lo sciopero generale proclamato dalla Cgil. Alle violente cariche i dimostranti rispondono. Restano uccisi Francesco Vella, organizzatore delle leghe edili, mentre soccorre un ragazzo colpito da un lacrimogeno, Giuseppe Malleo, Rosa La Barbera e Andrea Cangitano di 18 anni, non si sa se da poliziotti o mercenari. Una manifestazione indetta alle 18 davanti a municipio, questura e prefettura viene respinta con l'impiego di armi da fuoco. Gli scontri continuano fino a notte, seguiti da rastrellamenti e pestaggi dei fermati. Bilancio: 300 fermi, centinaia di feriti e contusi, 40 persone medicate per ferite da armi da fuoco.

8 luglio 1960
A Catania, nel corso dello sciopero contro il governo Tambroni, le forze di polizia caricano i manifestanti con lancio di candelotti lacrimogeni. Un edile disoccupato, Salvatore Novembre, rimasto isolato viene massacrato a manganellate e finito a colpi di pistola. Altri 7 manifestanti rimangono feriti.

sabato 19 giugno 2010

Ab imo pectore


La sua morte non è stata un’intermittenza, ma un’improvvisa perdita, una repentina mancanza, un immediato e vertiginoso senso di vuoto. Ripensando ad un suo libro e citando Piero Ciampi, da subito la sua assenza è diventata un assedio. Ma poi si riprendono in mano le sue opere, le sue frasi, i suoi scritti disseminati tra libri e giornalismo, stipati nelle proprie librerie o raccolti, trascritti e conservati dentro archivi elettronici, memorie artificiali. Si traccia così un filo di parole inscindibile con l’eternità. Questo perché Saramago appartiene a quella cerchia ristretta di uomini che resistono alla dimenticanza, persistono alla morte e continuano a parlarci senza emettere suoni.

Non riesco a pensare alla fine di qualcosa, non posso concepire la dissoluzione del genio, la definitiva dispersione della mente. Qualcosa rimane, anche oltre i suoi scritti. E non è l’anima di un irreligioso, non potrà mai esserlo. Semplicemente permane la trasformazione chimica di quegli ormoni che ancora determinano ragioni affinché rimanga fieramente comunista. Rimangono quegli ideali sempiterni che erano prima e saranno dopo di noi.

E rimangono le immagini. Il suo volto spesso sorridente, scarno ma deciso. I suoi occhi deduttivi protetti dagli stessi occhiali, e quell’eleganza innata che non ti faceva pesare le cravatte indossate per ritirare i premi o parlare pubblicamente.

Dal profondo del mio cuore erompono sentimenti di infinita riconoscenza verso un compagno che mi prendeva per mano e mi portava con sé, raccontandomi la sua visione eretica del mondo senza fare scandalo. Ho imparato a vedere questo mondo senza gli occhi, come un cieco ho usato gli altri sensi, ho sentito addosso l’orrore dell’umana ignoranza, e l’ho fatto fino al punto di rimpiangere la vista, definitivamente modificata.

Il mistero della scrittura è che in essa non c'è alcun mistero – da Storia dell’assedio di Lisbona.

Ciao, José.

mercoledì 9 giugno 2010

Il PD e la massoneria: oltre l'Opus Dei


"I massoni di sinistra?
Nelle logge sono 4mila"

Il Gran Maestro e il caso Pd: "Scoprono ora che la sinistra è figlia anche della massoneria". "E' ora di finirla con la leggenda della segretezza, frutto avvelenato di Gelli" di ALBERTO STATERA

Qui

martedì 8 giugno 2010

Pd, D’Alema pensa all’alleanza con Casini: “Con il 7% dell’Udc avremmo risolto”


Massimo D’Alema ribadisce la possibilità e forse l’auspicio di un’alleanza tra il Pd e l’Udc. E lo fa nello stesso giorno in cui il leader dei centristi Pier Ferdinando Casini e Antonio Di Pietro, leader dell’Idv, primo alleato dei democratici, litigano e si insultano. Segno che i piani alti del Nazareno stanno pensando a staccarsi dai dipietristi per spostarsi al centro e riconquistare i cuori cattolici?

L’analisi di D’Alema è arrivata oggi, durante un dibattito sui rapporti Italia-Brasile nel circolo democratico di via dei Giubbonari, nel centro storico di Roma. Di Punto in bianco una signora seduta nella piccola sala ha interrotto l’ex premier e lo ha costretto a parlare di politica italiana: “Ma perché continua a dire che dobbiamo allearci con Casini?”. Massimo D’Alema non si è fatto trovare spiazzato e ha immediatamente replicato: “E lei perché vuole che continui a vincere Berlusconi?”. La militante a sua volta ha sottolineato di avere tanti amici pronti a votare per il Pd. E ancora D’Alema: “Se lei porta un numero di amici pari al 7% che ha l’Udc avremmo risolto. Ma sono alcuni milioni di voti. Bisogna fare sempre – ha concluso D’Alema – un’analisi concreta delle situazioni e bisogna tener conto dei rapporti di forza. In questa sede di Casini possiamo dire solo che è uno dei pochi parlamentari italiani che si occupano di America Latina e questo è un merito indiscusso”.

D’Alema ha anche commentato la crisi economica italiana. “L’aumento della spesa corrente in Italia – ha affermato – è il vero fallimento di Silvio Berlusconi”. L’ex premier ha sottolineato che da quando Berlusconi è presidente del Consiglio la spesa corrente in Italia è aumentata di 6-7 punti sul pil. “Dopo dieci anni questo dovrebbe essere chiamato fallimento”.

Come volevasi dimostrare.

domenica 6 giugno 2010

Fermo - Elezioni comunali - La nota del PRC


Stando alle recenti notizie apparse sulla stampa degli ultimi giorni e a quelle di corridoio che si susseguono sempre più incalzanti sembrerebbe che le forze politiche di Fermo siano entrate in pieno clima pre-elettorale.

Presentazioni di liste dalla dubbia credibilità e dall'incerta collocazione, proposte di candidature estemporanee e improvvisate, spesso frutto di ambizioni che sembrano andare oltre la politica, discese di segretari regionali con ricette politiche buone per tutte le stagioni dimostrano ancora una volta quanto la politica sia lontana dai problemi quotidiani e dal modo di concepire l’interesse della collettività.

Il PRC di Fermo crede in un modo di fare politica nuovo e diverso, per questo è impegnato nella valorizzazione di quel percorso nato con le ultime Regionali, cercando di riportare la politica tra la gente attraverso comitati e movimenti da ascoltare, capire e farli protagonisti in futuro di scelte condivise per la città.

Nel fare questo ribadisce, naturalmente, che la credibilità politica di un partito non vada ricercata attraverso alleanze eterogenee fatte solo per vincere e battere una destra che in questa città ha dimostrato tutti i sui limiti politici, programmatici e di coesione nelle scelte ma, attraverso un programma forte, impattante e che dia un segnale di svolta decisiva ad una città ferma e mal governata per troppi anni.

Un gruppo di partiti che in questi dieci anni ha saputo costruire una forte opposizione alla Giunta Di Ruscio è la colazione giusta per segnare una discontinuità con chi non ha saputo governare fino ad ora. Ribadiamo, quindi, il nostro no ad alleanze allargate all’UdC - e liste riconducibili ad essa - proseguendo in una scelta già metabolizzata in regione e che già da subito comincia a dimostrare tutti i sui limiti. Nessun possibile accordo con gli uomini del partito di Cuffaro e Casini che non hanno mai preso le distanze dall’attuale sindaco Di Ruscio, rimarcando la loro fedeltà al centro-destra.

Questo per il PRC rimane un punto fermo, che non lascia spazio a compromessi di nessun genere.

Chiediamo, al riguardo, che il locale Partito Democratico dichiari, senza mezzi termini, che non vi è alcuno spazio per coalizioni allargate all'UDC o ad altre forze politiche, anche civiche, riconducibili ad esponenti locali che si siano in qualsiasi modo compromessi con l'Amministrazione del Sindaco Di Ruscio.

Consapevoli di una esigenza di cambiamento sentita dalla cittadinanza intera, crediamo di non dover affrettare i tempi, proprio per non rischiare di proporre un’alternativa ricercata attraverso le dinamiche della vecchia politica ammuffita e settaria, passante per raccomandazioni, autopromozioni e posizioni prevaricanti.

Per questo, per ora, il PRC ritiene di dichiararsi fuori dalla corsa al candidato sindaco e fuori da tutti questi movimenti e rose di nomi che nulla rappresentano se non sé stessi.

Giacomo Piergentili (Segretario della Federazione di Fermo)
Simone Tizi (Segretario del Circolo di Fermo)
Giorgio Benni (Capogruppo nel Consiglio Comunale di Fermo)

Joe Fallisi racconta l'attacco israeliano ai convogli umanitari verso Gaza

martedì 1 giugno 2010

I contabili dell'assurdo


Esistono i contabili delle morti. Scribacchini che segnano la storia, la influenzano raccontandocela enumerata. E sono decisamente singolari, perché non sempre sono infallibili, anzi spesso vanno quasi a singhiozzo. A volte sono formidabili contabili, indefessi e precisi, quasi a spaccare il capello. Altre volte si perdono, e sembra come non sappiano più contare. Li vedi aggirarsi come in Tutti i nomi di José Saramago, per poi trasformarsi in enormi insetti come il Gregor Samsa di kafkiana memoria. Così, abbrutiti dall’aridità dei loro stessi numeri, che li decifrano come contabili, contabili dell’assurdo.

Eccoli, allora. Sono tutti pronti ad enumerare le morti degli olocausti più indigesti e spettacolarizzati, piegati al loro senso ultimo di imparziale parzialità, perché spesso serve essere precisi. Ma poi si perdono, s’inceppano, la loro vista s’annebbia, il loro matematico cervello sfarfalla. Ed allora i numeri non sono più tali, non sono precisi, non si assommano, magari si sottraggono. Chissà…

Spesso i loro numeri riecheggiano, a volte per molti anni. Sei milioni! E tutti sanno che è il numero pressoché esatto dei morti della Shoah. E sono tanti, tutti insieme, uno sopra l’atro, soffocati ma pur sempre rimanenti unità distinte. E la gente si fa triste, ne piange il ricordo presente. D’altronde i numeri servono. A volte i numeri portano al riconoscimento di Stati entro altri Stati, matrioske a forza, stipati con violenza vendicativa e riparatrice di vecchie sofferenze, come se la sofferenza desse il diritto di provocarne dell’altra, in una spirale di occhio per occhio e dente per dente, con esattezza religiosa.

Ma poi ci sono i numeri fumosi, quelli cancellati dal tempo e dall’inutilità per il potere che si riproduce, riproduce se stesso attraverso se stesso, attraverso i numeri che si fanno importanti. Quanti nativi americani sono morti per far spazio agli uomini bianchi venuti con le navi dal Vecchio Continente, quanti? Ed ecco che i contabili non sanno più contare. Quanti palestinesi sono morti nei Territori Occupati? Niente, magari andrà meglio con altri, non so; forse i mussulmani morti nelle tre guerre tra Afghanistan ed Iraq, ma anche in questi casi il contabile dà prova di errare. Perde la sua capacità, e diventa fallibile, disattento, forse cieco.

Ed in tutto questo sono loro, i contabili dell’assurdo, sono loro che ci fanno piangere e disperare, o rimanere indifferenti. Indifferenti dinanzi a quelle morti senza numero, che non riescono ad assommarsi le une alle altre. Cadono rumorosamente senza fare numero, e rimangono solitarie, dimenticate, inclassificabili.

Qualcheduno impaurito dai numeri dispersi grida ancora “restiamo umani”, ma l’umanità non è un numero, è un genere che si assomma ad altri generi che contano, ed insieme fanno numero. Sempre se ai contabili funziona la vista. Altrimenti non conti nulla, non sei manco un numero.